Il sogno non può essere copiato


Seminario del 3.7.2008

Nella terza parte del film di Wenders, che abbiamo veduto giovedì scorso, è fantasticata l’esistenza di una macchina in grado di visualizzare i sogni e di trasmetterne una copia nella forma dell’originale, direttamente iniettandola nella mente di qualcun altro. Iniettandola direttamente nella mente di qualcun altro. Ma non è, questo, praticamente impossibile, se la singolarità del sogno è assoluta finanche nell’accezione temporale, non esistendo, un sogno, se non al di fuori del tempo, se non catturato nella temporalità del racconto, ciascun racconto essendo a sua volta singolare? Il tempo di ciascun sogno è sempre, per così dire, fuori dal tempo.

Possiamo dunque chiederci: è concepibile l’esistenza di una copia originale di un sogno? Sarebbe come riattivare la credenza nel codice che precede il racconto, la credenza dell’interpretazione possibile e unica di un sogno, la credenza di un sogno che potrebbe esistere al di fuori del racconto. Al modo stesso del racconto, il sogno si sviluppa come provocazione a partire dall’esistenza di un punto vuoto, unico e singolare, il sembiante, chiamato da Freud “ombelico del sogno”, il quale non consente l’esistenza di nessun codice, di alcun fondamento al racconto al di fuori della parola. La bellezza di ciascun sogno sta nel malinteso, nella sua irriducibilità a un senso sottostante già dato che varrebbe a chiarirlo.

Per un altro verso, la macchina per trasmettere i sogni già esiste; è, infatti, la televisione, qualora volessimo riconoscere che la realtà stessa non è altro che un sogno come hanno sempre compreso filosofi e poeti. Ma il guaio della televisione è che essa, come purtroppo accade, si arroghi appunto la pretesa di trasmettere la realtà autentica. In effetti, ce la trasmette come “credenza” ed è per questo che non finisce mai di annoiarci. E al di là della notazione ideologica o politica ancorché ineccepibile, la televisione (come il congegno fantasticato da Wenders) non può essa stessa pretendere di trasmettere nulla di originale, dal momento che ciò le sarebbe strutturalmente impossibile.

Un sogno è caratterizzato dalla sua singolarità. La singolarità del sembiante; dell’immagine nella sua stranianza, dello sguardo nella sua sottrazione, soprattutto della voce, nella sua astrazione, e queste sono anche le proprietà del racconto. Il fascino del racconto non è dovuto all’aderenza a una qualche realtà già esistente, ma al viaggio, anche temporale, cui dà principio nel desiderio. Che è il ritmo con cui si avvia il racconto, che sono la musica e la danza con cui può principiare il viaggio.

Nei film di Wenders (Fino alla fine del mondo) è presente particolarmente l’incubo (l’incubo del pericolo nucleare), un modo del sognare affatto singolare perché, allorquando per gli umani incombe il rischio estremo, l’incubo è l’unico modo perché essi possano continuare a sognare e, dunque, a raccontare. Soltanto l’incubo, parrebbe allora suggerire il regista, è in grado, nella società in cui viviamo, di lasciarci abbandonare nuovamente al sogno e al racconto. L’incubo che preserva il sonno. Tramite l’incubo, il reale estremo si mostra aderente con quello più intimo e nell’incubo è, dunque, ancora il sembiante a provocare con la sua presenza. A provocare il racconto verso la cifra che ha il potere di dissolvere qualsiasi categoria della ragione, compresa la distinzione fra esterno e interno.

Ogni visione cupa del mondo, anche il semplice pessimismo, non è che un incubo che si sta tratteggiando nel racconto, un incubo che si fissa e che comincia ad ammorbare il racconto. Il presentarsi dell’incubo è un modo per contrastare la credenza, la realtà con le sue opposizioni logiche già tracciate, per dissolverla nella cifra. Giungere all’autenticità della cifra è dunque l’unico atto davvero efficace consentito agli umani; l’irruzione della cifra dimostra come il sogno non rappresenti affatto una condizione di inerzia, ma l’atto creativo per eccellenza.

Ma quale differenza fra il sembiante e l’ombelico del sogno? Il sogno, ciascun sogno non è di questo mondo. E anche il sembiante è irraggiungibile dal concetto e dall’universale con cui pretendiamo di afferrarlo. Nel sogno, l’inconciliabile, l’astruso è dunque originario e si rivela una proprietà del racconto e della parola originaria. Proprietà del sembiante. Così l’interpretazione è sempre menzognera e non può sostenere alcuna ambizione di precedere il sogno, di esaurirlo, delucidarlo, ricondurlo a una versione sottostante che sarebbe quella autentica. Ecco perché il sogno è già l’interpretazione che ne potremmo trarre e qualsiasi altra è in grado di ricondurlo solamente al concetto, ossia alla ragione come sua morta spoglia. Quando sogniamo, questa è la sorpresa e il miracolo, siamo in presa diretta col sembiante. L’autentico è dunque l’astruso, la realtà stessa non è che l’astruso. Nessun racconto senza l’irruzione dell’astruso.

Nella storia dell’interpretazione dei sogni è sempre prevalso il discorso sul racconto. L’esigenza stessa di interpretare un sogno parrebbe obbedire all’esigenza del canone che riporta ciascun racconto, ciascun sogno alla misura, al positivo e negativo, all’algebra, al formato corretto; proprio per tale motivo la distinzione fra incubo e sogno si è tramandata come fosse originaria, come se, dunque, fossero entrambi la copia di aspetti contrastanti della realtà, sussistenti prima del sogno medesimo. Inferno e superno, sotto e sopra, sono proprietà frastiche del racconto; abbandonata l’intenzione del racconto, la punta direzionale del desiderio, tolto il filo e l’ago, è introdotta l’algebra del discorso, è cancellata la parola che conduce spontaneamente alla cifra. Ciascun sogno procede verso la cifra che è della parola ed è la cifra a placare togliendo la distinzione fra sogno e incubo; è la cifra a cancellare il segno del male (come dimostra il sogno di Freud dell’iniezione ad Irma). Vi è segno, e dunque pretesa di interpretare il sogno, allorché si suppone l’esistenza di una copia conforme al canone, al canone che è soltanto del discorso. Il canone è la morte del racconto e del sogno.

Le proprietà del sembiante funzionano retoricamente. La loro presenza è rivelata, per così dire, dallo stato di sommovimento della lingua. In effetti, non è con la ragione che possiamo comprenderle, afferrarle concettualmente. Il sembiante sfugge sempre alla ragione. Vano, pertanto, enunciare cosa siano lo specchio, lo sguardo e la voce, come sconclusionata la domanda su cosa sia la sessualità. La presenza della metafora provoca allo specchio, al sembiante come punto di distrazione; la presenza della metonimia provoca allo sguardo come punto di sottrazione, ecc. Ma, rispetto al senso, sono la distrazione, la sottrazione e l’astrazione in primo piano, quando funziona il sembiante. Potremmo dire che in un certo senso la lingua funziona contro se stessa? La lingua funziona attivandosi e questo vuol dire che funziona variando il senso, se non contro il senso. Ecco perché assurda risulta la pretesa di enunciare cosa siano lo specchio, lo sguardo e la voce. Il pensiero critico si rivela anche qui come l’unico modo adeguato di proseguire. Considerare che cosa non siano lo specchio, lo sguardo e la voce, è l’unica risorsa per il viaggio della nostra vita. La metafora, metonimia e catacresi sono modi strategici di evitare il che cosa? Rispondere a: guardare che cosa? vale a eludere lo sguardo. Così: rispecchiarsi in che cosa? vale a eludere lo specchio. Udire che cosa? vale a eludere la voce. E anche ciò che vado qui teorizzando non può credersi esente da equivoco, menzogna e fraintendimento. Nella vita occorre essere sognatori e poeti: occorre l’impegno di giocare con la lingua per salvaguardare l’esistenza del sembiante. Dimenticanza e fraintendimento, il sogno e la poesia, sono la bussola della nostra vita.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *