Seminario del 17. 7. 2008
Il sogno non è banalmente una copia distorta, confusa e mal riuscita della vita desta o una sua rappresentazione puramente immaginaria e illusoria che la duplicherebbe; non giace relegato soltanto nel recinto del sonno, ma è qualcosa di palpitante che informa la stessa vita desta, vale a dire che si annoda strettamente alla nostra vita pragmatica. Proprio la dimensione pragmatica della vita non può prescindere dal sogno. Dal sogno che è nella parola. Semmai, si tratta di opporre quel registro peculiare della parola, che noi chiamiamo pragmatico, alla realtà piuttosto che al sogno. Quella che denominiamo realtà, è solitamente un’espressione con cui si declina il fantasma; è la realtà comune dei fatti, fantasma materno, degradato discorso, totalizzante fantasma e pertanto mortifero. Dunque, potremmo aggiungere, è l’effetto di un fantasma da cui sia stato defalcato il sogno. Questa è una torsione logica che si rende ormai indispensabile per conservare alla nostra vita quel sigillo del miracolo per cui essa si distingue da qualsiasi concezione della realtà che non sia della parola. Ora ne deriva in modo alquanto paradossale che la dimensione pragmatica alla vita sarebbe conferita dal sogno. Proprio dal sogno, che si confermerebbe come l’atto per eccellenza degli umani.
Se la vita miracolosa della nostra veglia è in qualche modo alimentata dal sogno, non potrebbe essere quest’ultimo a conferirle l’attitudine a provocare l’evento, l’incontro, il miracolo, così come ciascuna risorsa della quale, da solo, il sogno non parrebbe peraltro disporre?
Un paradosso degno della nostra attenzione. Proviamo a insistere in questa direzione. Proviamo dunque a pensare, quale originario contrasto, non quello fra la veglia e il sonno, o la ragione e il sogno, ma quello fra la vita miracolosa della veglia e il sogno quale sua manifestazione particolare, o quale sua specifica integrazione. E la domanda, più o meno corretta, che fin dall’inizio possiamo rivolgere a noi stessi è forse la seguente: quale miracolo ci accorgiamo che viene a mancare nel sogno notturno e quale sorta di miracolo suppletivo, invece, vi compare? Benché il termine suppletivo qui si riveli immediatamente improprio, dal momento che non esiste alcuna copia originale cui riferire sia la vita che il sogno. Una tale funzione di copia originale, che varrebbe quale ormeggio per qualsiasi distinzione possibile fra il sogno e la veglia, è stata, infatti, tradizionalmente assegnata proprio alla cosiddetta realtà. Ma la realtà, più che una dimensione originale della parola, ne è una mera rappresentazione.
In ogni caso, nessuna dimensione che non sia della parola, e anche la topologia, che frequentemente adoperiamo per illustrare la nostra teoria, non è una dimensione originaria della parola, ma ancora una sua rappresentazione. La topologia, senza pretese di toccare una realtà fondante, semmai è utile quando ci consente di spogliare la parola proprio da quella che altrimenti potremmo considerare una sua dimensione geometrica originaria sulla quale essa ambirebbe illusoriamente a fondarsi.
Ma quale potrebbe essere il miracolo specifico del sogno? L’incontro sorprendente, e quasi sempre intensamente vissuto, con delle immagini che peraltro non sono sperimentate come banali copie sfocate, rispetto all’originale della veglia, se non al momento del risveglio. La vivacità e la concretezza della loro apparizione nel sogno non mancano di sorprenderci, anche se nella veglia possiamo ascrivere unicamente al desiderio, che così intensamente si sviluppa durante il sonno, questo loro potere avvincente e coinvolgente. E’ soltanto una gradazione (che, data la premessa, non può essere commisurata al grado di affetto sviluppato dall’evento, che sia l’immagine del sogno o l’incontro della veglia), quella che consentirebbe di sceverare fra le due separate esperienze? E poi, gradazione rispetto a che cosa?
La gradazione risulterebbe ammettendo che nel sogno vi sarebbe un predominio dell’immagine rispetto alla parola, un imporsi dell’immagine che si accende spontaneamente, quale carattere essenziale della condizione del sonno, mentre, nella veglia, le immagini sarebbero caratterizzate da un’inerzia tale da far sorgere l’impressione di un dominio più saldo della parola. Questo rinvio alla parola, e ai suoi registri, ci consente comunque di procedere su una strada più sicura e già battuta, convogliando nella struttura del linguaggio ciascuna differenza e opposizione, accogliendo, infine, che la differenza originaria è sempre quella della parola, e che da essa procede ogni dualismo successivo, ivi compreso quello fra il sogno e la veglia.
Questo dualismo, fra il sogno e la veglia, è allora riconducibile al predominio di un registro della parola sull’altro, a un’ipo o ipertrofia di una funzione rispetto all’altra. Nel sogno è indubbio che la metafora e la metonimia (per Freud, condensazione e spostamento) si sviluppino in una condizione di evidente anarchia (anche se resta da chiedersi: anarchia rispetto a che cosa?). Nel sogno vi sarebbe allora il predominio della funzione pragmatica (asserto ben paradossale se lo pensiamo riferito a una condizione di paralisi e di apparente distacco dal mondo) dovuta proprio al fatto che le altre due funzioni, quella metaforica e metonimica, sono in pieno subbuglio e movimento, ossia sbloccate dal riferimento fissato allo specchio e allo sguardo (condizione che caratterizza appunto la veglia).
Ancora, provvisoriamente, potremmo definire il sogno come quella dimensione della parola che appare sprovvista della possibilità dell’incontro. Ma come intendere questo asserto? In effetti, nel sogno siamo innegabilmente paralizzati e quale incontro potrebbe mai avvenire se non quello indistinto e vacillante con le figure fantasmatiche del sogno, con le ombre effimere che popolano le nostre notti? Intanto, potremmo convenire che nulla accade nel sogno se non il dipanarsi del racconto. Nel sogno, il miracolo si trova, per così dire, a coincidere con lo stesso racconto; pertanto, il racconto stesso del sogno non è che un miracolo o, più correttamente, il miracolo non è infine che una proprietà del racconto come tale. Nessun evento cosiddetto “reale” giunge nel sogno a lambire tale racconto. Occorre, peraltro, tener conto che questa è una definizione del sogno ancora contraffatta dalla consapevolezza che del sogno possiamo parlare soltanto da svegli. In realtà, abbiamo sempre e soltanto a che fare con il racconto del sogno. Per questo possiamo parlare, appunto, del sogno come miracolo in sé, dal momento che esso sopravviene a noi con quella sorpresa che rappresenta la sua attrazione e il suo fascino ai nostri occhi, ora dischiusi, della veglia. Se non dubitiamo che l’evento sia di pertinenza del mondo desto, ora non possiamo tuttavia ascriverlo alla ragione, ma all’Altro.
Non è per qualche merito della ragione, ma è per l’esistenza del sogno che possiamo affermare che un evento è miracoloso di per sé. Senza l’esistenza del sogno, che pervade anche la nostra veglia, non potremmo affermare che un evento è miracoloso. E’ per l’esistenza del sogno che possiamo sperimentare come miracolosa la vita, a prescindere dagli eventi che ci aspettiamo che siano in grado di renderla tale. Questi eventi presunti, che sono il frutto dell’esperienza nostra della cosiddetta realtà, di per sé non sarebbero dotati di alcuna qualità particolare senza il sogno che giunge ad informarli, starei per dire, a determinarli in quanto tali, appunto, come miracoli e sorprese.
La vita miracolosa è quella della sospensione e dell’attesa dell’evento, è anche già questa attesa stessa, per quanto non parrebbe che ne siamo di norma consapevoli e l’inflessione di questa attesa è conferita ad essa dal sogno. E’ il sogno che conferisce la tonalità del miracolo all’attesa, sottraendo l’evento alla mera rappresentazione, e ancora è il sogno a mutare pertanto un evento qualsiasi in un miracolo.
Il sogno e l’Altro sono dunque l’essenza miracolosa della nostra vita, sono proprio ciò che la sottrae alla realtà e la rendono degna di essere vissuta. Ma non si tratta per nulla di un’illusione. Quanto l’Altro contribuisce all’accadimento della vita? La questione è pragmatica. L’astrazione, come virtù dell’Altro, si rivela come il massimo della concretezza. Gli eventi della vita si allineano in qualche modo sotto la guida del sogno. Conseguentemente, gli eventi della vita pretendono da noi la retorica, anziché la ragione; metafora, metonimia e catacresi sono il modo davvero più concreto per trattare la vita. E, freudianamente, sono queste le funzioni che si dispiegano nel sogno.
Il miracolo è infine il sembiante, l’oggetto nella parola, che può essere molto vicino e molto lontano, presente accanto a me, prossimo ad accogliermi, come miracolo è pure l’accoglimento del sembiante, con la verginità, la sua estrema vicinanza, il quale, provocando, mi libera della scorza di tutti gli enunciati che lo rendevano indifferente. Miracolo è l’incontro con il sembiante che avviene sempre nella dimensione del sogno, nell’interstizio del tempo lineare a inaugurare una rinnovata temporalità. Per questo possiamo, infine, giungere a riconoscere una sorta di coincidenza fra l’ombelico del sogno e il sembiante.
Il sogno non si svolge sui margini o in qualche luogo chiuso e appartato della mia vita psichica, per così chiamarla, ma la pervade in ciascun intervallo, borda dall’esterno e compenetra la mia vita desta (nella sua dimensione a-topica ed a-temporale) ed è inoltre la sua presenza che smaschera la presunta realtà oggettiva facendola apparire come una realtà costruita.
L’evento riguarda più il sogno che non la realtà. L’evento è in balia dell’Altro. Forse è, appunto, per timore dell’Altro che abbiamo tradizionalmente affidato alla ragione gli eventi della nostra vita, o alla fortuna, oppure al caso o alla mala sorte. E, adottando queste strategie, abbiamo creduto, rappresentando l’Altro, di poterlo addomesticare, dimenticando che l’Altro pervade pure la nostra ragione; anche la ragione vale in quanto ragione dell’Altro.
Non è il mio cervello a produrre il sogno, come non è il mio corpo a muoversi nella realtà, ma entrambi corpo e cervello operano nella dimensione della parola in cui il sogno si produce e si sviluppa. Certo è per effetto di questa scrittura che il mondo si dispone infine secondo delle regole confermate dall’esperienza.
Sarebbe il caso a ogni modo di distinguere l’esistere di un qualsiasi evento dall’esperienza di una vita miracolosa. Quest’ultima appare tale (vale a dire carica di sorprese, ma anche di enigmi e paradossi che talvolta non la sottraggono pienamente all’esperienza dell’angoscia), proprio nel confronto con la ragione allorché quest’ultima si rivela inadeguata a comprenderla. Di per sé, l’evento potrebbe permanere del tutto indifferente (solitamente accade proprio questo), e unicamente quando è attuale la consapevolezza di un legame con il desiderio e con il sogno ci appare invece nella forma straordinaria del miracolo. Sogno, dunque, o son desto? E’ proprio questa distinzione che l’instaurarsi della consapevolezza dell’evento in quanto miracolo, fa vacillare.
Quanto, dunque, influisce la consapevolezza dell’evento sulla stessa esistenza del miracolo? Possiamo anche trascorrere un’intera vita miracolosa senza accorgercene minimamente, al più riconoscendo soltanto d’esser nati con la camicia.
Questo rilievo ci fa, però, necessariamente approdare alla verifica paradossale che la consapevolezza è proprio un attributo del sogno e non della veglia; non solo, ma che la consapevolezza (che potremmo a questo punto qualificare onirica) non è un semplice stato inerte dell’esistere, bensì una condizione pragmatica, cioè una forza per produrre e creare il mondo, e poco ha a che fare con la banalissima coscienza che nel discorso corrente si rivela come una sua rappresentazione di ripiego. La consapevolezza, paradossalmente, è il tratto che caratterizza l’atto di impadronirsi della veglia da parte del sogno.
Non potremmo, a questo punto, tentare il gesto audace di contestare Freud almeno in parte, ribaltando il suo teorema che il sogno sia l’appagamento di un desiderio inconsapevole della veglia e osservando che tale determinazione non è, a sua volta, che una semplice rappresentazione o riduzione di una legge più ampia che compete prima ancora che al sogno proprio al mondo della veglia? Precedentemente a questa distinzione fra il sogno e la veglia, è proprio la realtà in quanto tale che può disporsi, non ostante la ragione, ma essendo ben disposta la parola, secondo i dettami che le sono imposti dal desiderio e dal sogno. Essendo ben disposta la parola, vale qui come: essere in armonia con l’Altro. Ed è infine soltanto questo enigma, celato nell’Altro, che si porrebbe a garanzia dell’equilibrio che ci consente di affermare che ora siamo svegli e che non stiamo per nulla sognando.
Il nostro ribaltamento nella veglia, della legge freudiana del sogno, o il conglobamento nella veglia del mondo del sogno, potrebbe trovare una conferma con un esame circostanziato di tutti i processi di trasformazione da Freud analizzati nella sua opera sul sogno, e che egli definisce come noto, lavoro onirico. Un simile esame critico comporta altresì un ribaltamento temporale che dà risalto all’originarietà peculiare del sogno rispetto ai pensieri latenti, pertinenti alla veglia, e che potremmo sommariamente identificare con la ragione. I vari modi con cui il sogno s’incarica di rappresentare nelle immagini le connessioni logiche fra i pensieri, che si tratti dell’esclusione, della relazione causale, dell’identità, dell’inversione, e così via, devono essere riesaminati strappando alla stessa congiunzione logica quella originarietà che le deriverebbe dal riferimento a una realtà primaria della veglia ormai radicalmente in questione.
Se l’incongruo è una proprietà originaria della parola, esso con la simultaneità esprime quella prima matrice autentica di ogni congiunzione logica che troverà rappresentazione diversificata (secondaria) unicamente nella dimensione logica e temporale della frase. Così come la ragione può esprimere soltanto le vicende di una parola ormai inaridita, la veglia si corrompe quasi sempre convertendosi nell’espressione solidificata di un sogno che ha abbandonato la simultaneità originaria dell’incontro con il sembiante. D’altra parte, se per il racconto espresso con le immagini del sogno si può parlare di simultaneità, a questo livello qualsiasi ulteriore precisazione logica fra i vari elementi risulterebbe del tutto vanificata. Nella simultaneità, che esprime il predominio della varietà infinita dei modi del racconto, sono in fondo già comprese le finite modalità di relazione logica che ne potrebbero conseguire. Le congiunzioni logiche sussistono soltanto in riferimento al tempo lineare della frase e non serbano alcunché di originario.
Quando siamo immersi in un sogno possiamo dubitare di essere svegli, possiamo persino indugiare in qualche modo nella certezza di esserlo. Possiamo esserne consapevoli, come ci può capitare che siamo sicuri che stiamo semplicemente sognando. Siamo nello stato d’impermanenza, simile al momento dell’incontro nella veglia. Vi è continua interferenza fra le dimensioni del sonno e della veglia. Come se, appunto, questa distinzione stessa, fra il sogno e la veglia, non fosse per nulla originaria, non riguardasse per nulla il sogno, il quale occupa un luogo Altro, al di là della frontiera fra il sonno e la veglia. Nel campo dell’Altro (che è anche un campo pertinente alla veglia) nessuna distinzione può precedere quella che s’instaura costantemente nel gerundio, nello svolgersi del racconto medesimo.
Nel sogno si riproduce continuamente l’evento e, dunque, anche l’incontro. La veglia e il sogno troverebbero così uno strano, vertiginoso e insondabile punto di convergenza proprio nell’esperienza dell’evento o dell’incontro. L’incontro nella veglia e l’evento del sogno sarebbero, forse, a loro volta simultanei?
Effettivamente, è la questione del tempo che qui si affaccia con prepotenza. Se la distinzione fra il sonno e la veglia non è originaria, dobbiamo ipotizzare questo punto (vuoto) quando siamo nel campo dell’Altro, in un tempo specifico, non riconducibile né al sonno né alla veglia, dove, potremmo dire, l’evento del sogno e l’incontro della veglia si congiungono in una maniera acrobatica. Tutto ciò non appare alquanto strano e difficile, appunto, da comprendere? Ma forse non è proprio il caso di comprendere, se ciascuna comprensione implica l’arresto di questa oscillazione fra sonno e veglia e dunque l’adesione alla linearità del tempo, che, appunto, è particolare soltanto alla dimensione sintattica e frastica della parola. Nel sogno, così come avviene nell’esperienza miracolosa dell’incontro, siamo in qualche modo acrobati nella pragmatica. Volteggiamo, leggeri, in un’altra dimensione della parola.
Questo punto vuoto, pragmatico, possiamo forse paragonarlo all’occhio del ciclone: è, insieme, una pausa di calma assoluta e irreale; un intervallo, scaturigine della parola, fuori dal tempo lineare, ma è inoltre accerchiato, sul bordo della frastica, dalla percezione più o meno confusa e turbolenta della simultaneità, ed è un tale sapere incombente a procurare la sensazione dell’angoscia assoluta (come lo è ciascuna angoscia), caratterizzata dal dissolvimento del tempo e della logica. Un conto è vivere l’ossimoro pragmaticamente, sperimentare il mondo come ossimoro, un altro conto è approssimarsi soltanto a questa esperienza; la sensazione, cioè, che il grande potrebbe facilmente convertirsi nel piccolo o viceversa, il bello nel brutto, il dentro nel fuori e così via. Ecco una spiegazione abbastanza convincente per render conto dell’esperienza dell’angoscia.
Affermo che gli eventi della nostra vita si svolgono, pertanto, come se abitassimo quasi sempre, più o meno consapevolmente, nel racconto di un sogno.
Vediamo l’esempio di un sogno raccontato da un analizzante. Si trova in compagnia della fidanzata o di un’amica in un ampio appartamento. Al centro della stanza quasi vuota (precisa che a terra ci sono solo due cartoni per imballo aperti) troneggia una strana macchina dalla sagoma inquietante molto simile al motore di un grosso automezzo. Si ricorda che deve fare degli acquisti urgenti, ma nel portafoglio sono rimasti pochi spiccioli. Subito è colto dall’idea che quella macchina convenientemente adattata potrebbe svolgere la funzione di un bancomat ed essergli utile per procurarsi i contanti che gli servono. Armeggia pochi istanti e d’improvviso la macchina sbuffando si avvia; da una fenditura laterale comincia a emettere biglietti di banca a una velocità impressionante. Inizialmente, dopo la sorpresa, è colto da angoscia al pensiero che quella macchina gli stia prosciugando il conto bancario, poiché intuisce che debba essere collegata con la sua banca. Ma la macchina continua a sputare banconote di vario colore a un ritmo impressionante. Pochi istanti ancora e il nostro sognatore si accorge, con una sensazione mista tra lo stupore e l’euforia, che la quantità di fogli volteggianti attorno è certamente già superiore all’importo del suo deposito bancario. Raccoglie il denaro che ordina in mazzette e ripone confusamente nei cartoni. La fidanzata, però, lo redarguisce sollecitandolo a controllare se nella stanza adiacente non vi sia qualche armadio o qualche cassaforte per riporvi in sicurezza tutto quel denaro. Intanto la macchina sembra rallentare il suo ritmo e dopo poco si arresta. Tutto eccitato, il nostro si precipita nella stanza accanto e nota un grande armadio in noce pesante adatto perfettamente per l’uso. Precisa che al momento di entrare nell’appartamento aveva già intravisto quell’armadio, solido in apparenza come una cassaforte. Rassicurato torna dalla fidanzata. A questo punto, però, l’amara sorpresa. Si accorge che i cartoni d’imballaggio sono spariti. La fidanzata è in un angolo indaffarata in qualcosa d’imprecisabile e, interpellata da lui sul destino del denaro, risponde con un certo stupore chiedendogli se non fosse per caso impazzito o se per caso non stesse sognando. Appunto. Il risveglio gli lascia un che di amaro in bocca.
E’ molto facile interpretare il sogno come soddisfazione di un desiderio inappagato della veglia dal momento che il nostro analizzante si è sempre lamentato delle proprie ristrettezze economiche. Ma questo, ovviamente non ci può bastare. Occorre lasciare che questo sogno ci conduca altrove.
Possiamo prendere le mosse da alcuni elementi che subito ci conducono nel cuore delle questioni di cui ci stiamo occupando nel nostro seminario. La ragione, il tempo e il miracolo. Alcuni elementi in apparenza marginali attraggono la mia attenzione. Prima di tutto i contenitori, l’armadio e i cartoni per imballo. Appare, certo, tutto preparato in anticipo per eventi che si svolgeranno in un secondo tempo nel sogno. Il sogno, cioè, sembra disporre di una previdenza tale da assicurare all’ignaro sognatore una trama appropriata e coerente nelle vicende del racconto che si andrà a dipanare. Anche la macchina, che l’analizzante definisce inquietante, è già lì come in attesa; il sognatore, nel primo tempo del sogno, ignora del tutto la funzione alla quale dovrà assolvere. In generale, la notazione è valida per qualsiasi elemento che compaia nel sogno; in questo, ma in qualsiasi sogno. Vale a dire che la trama si svolge, in un certo senso, autonomamente e il sognatore è trascinato lungo un percorso disseminato da continue sorprese e scoperte, come se la trama precorresse di continuo l’intenzione del sognatore. Enigma del tempo nel sogno. Nessun soggetto è presente nel sogno. Ma, occorre ribadire, nessun soggetto in qualsiasi sogno.
E’ forse troppo facile l’accostamento della macchina che sputa i soldi al motore immobile aristotelico? Nel sogno è come se gli effetti (l’armadio-cassaforte, i cartoni per imballo) precedessero la causa, cioè la macchina che produce i soldi, che sono felicemente atti a contenere. Il fatto che il sognatore sia del tutto ignaro all’inizio del sogno circa la loro funzione, non finisce di stupirci. Il sogno ci presenta un tempo rovesciato dato che ciò che fin dall’inizio funziona nella latenza come causa lo ritroviamo alla fine del racconto onirico. In definitiva, è il nesso causa-effetto che si trova, parrebbe, a essere irriso o parodiato fino alla completa sparizione.
Questo tempo rovesciato, infatti, è tale soltanto nel riferimento al tempo della ragione della veglia e non al tempo originario che come tale non scorre affatto e non contiene per nulla un passato, un presente, un futuro. Potremmo allora identificare, in generale, la funzione assolta dal sogno proprio come una funzione di contrasto per un dissolvimento. Il sogno dissolve il tempo della ragione della veglia opponendogli strategicamente una temporalità contraria che ha ragione di sussistere soltanto in opposizione alla prima. La funzione di qualsiasi sogno potrebbe essere allora proprio quella di dissolvere la ragione calcolante, per lasciare che si manifesti la temporalità Altra dell’evento, nella simultaneità di tutti gli eventi possibili sulla scala della ragione.
La caratteristica fondamentale di un sogno è quella di far piegare un nome, volgendolo alla metonimia del racconto. Un nome che, in realtà, non ammette alcun altro nome fissato per determinarlo, anzi che è scelto in modo tale da attivare l’equivoco. Il sogno irride come inverosimile il nome del nome. La sintassi avviata dalla fissità del nome si sviluppa volgendo alla frase, nel racconto. Cos’è un nome? Un nome (proprio) è solo un significante provvisoriamente stabile, poiché oggetto di presunzione (da parte della ragione) che le sue caratteristiche siano quelle di poter essere il nome del nome. Il nome proprio è il luogo in cui si ritiene efficace la rimozione della rimozione.
Il rinvio nel sogno è incessante fra significante e nome. Il sogno si avvia per la tenuta provvisoria di un nome, ma, rispetto alla veglia, questo nome è già introdotto all’infinita metonimia significante. Infatti, nel sogno, il nome è onnipresente nel tempo e nello spazio del racconto.
Diversamente Lacan affermava che ciò che distingue il sogno dalla veglia è che, nel sogno, non tiene più il nome del padre. Il nome del padre comincia a funzionarvi, appunto, in modo limitato come semplice nome. E’ l’oggetto del desiderio a scomparire nel sogno e, per Lacan, il fallo ne è il significante, cui corrisponde l’ombelico del sogno del quale ci parlava Freud. Il fallo in quanto significante della mancanza, dell’oggetto del desiderio, è proprio questo nome nella sua possibile apertura infinita e metonimica. Nel suo vacillare in quanto nome. Ma questo oggetto incoglibile, nella veglia e anche nel sogno, non è altro che il sembiante, per noi l’evento o il miracolo della veglia.
Queste osservazioni ci servono da ponte per introdurre ancora una considerazione sul tempo che conferma l’ipotesi sopra accennata. Un nome può dirsi immerso nel tempo? Il nome proprio che funziona nel sogno è la macchina sputasoldi, e questa macchina è presente fin dall’inizio nel sogno, ne governa la direzione e lo svolgimento delle vicende raccontate. Un nome è un significante che funziona nella rimozione, vale a dire che è un significante nell’Altro, un significante al di fuori del tempo lineare della frase. Un nome, potremmo diversamente annotare, è un significante che si trova ovunque, proprio come Dio; in cielo, in terra e in ogni luogo. Il motore immobile aristotelico non era che un nome rappresentato, un significante qualsiasi che si voleva tenere annodato alla catena significante (la serie dei nessi causali che giungono fino ad esso) lungo un verso temporale già fissato. La ragione occidentale, a partire da Aristotele, ha scordato l’autentica funzione del nome. Che poi non è altro che quella di generare il tempo, e anche lo spazio, naturalmente.
Ed è proprio il sogno, irridendo la ragione, a rammentarci che la vita è un miracolo, e quel sogno particolare a ricordare al nostro analizzante che il desiderio deve informare anche la veglia per toccare il miracolo (che a questo punto può certamente non essere più, banalmente, quello di arricchirsi). Il miracolo della vita ora si sostiene sulla ragione dell’Altro.
Il motore immobile aristotelico non era, in fondo, che un ossimoro solidificato poiché risultava ancora una caricatura dell’ossimoro (come lo è ogni causa prima supposta), pur essendo intelligentemente identificato dal filosofo con l’atto e con l’eterno. Il testo aristotelico conserva tutta la sua suggestione se sappiamo leggerlo appunto come semplice parodia, ossia come racconto. Mentre, l’inquietudine che coglie l’analizzante di fronte alla macchina sputasoldi gli deriva, forse, dalla sensazione che quella macchina avviandosi ha liberato la possibilità dell’ossimoro e insieme l’eventualità di un tempo rovesciato. La macchina sputasoldi è il nome del nome mentre sta abdicando alla sua funzione che ora si rivela provvisoria; appunto, quella di nome.
Nell’accezione di “miracolo” è presente in qualche modo anche la morte? Se la vita è miracolosa, il miracolo parrebbe alludere a qualcosa di straordinario che per contrasto suggerirebbe l’ordinario corrente nell’esperienza di ciascun giorno. Ma il miracolo è in grado di fagocitare l’ordinario della vita. Non solo, altrimenti ricadremmo nell’illusione religiosa così strenuamente combattuta da Freud, ma il miracolo allude a un’esperienza pragmatica che è la sola in grado di conferire autenticità alla vita. Esperienza pragmatica della parola che ci ricorda la sua forza. L’essere principio della prima distinzione possibile che non sarà più quella fra la vita e la morte.
Ancora, non è circoscrivere la vita nell’alone dell’ideale o ricadere in una concezione gnostica del mondo, non è quantomeno ingenuo o illusorio definire la vita aggettivandola con il termine di miracolosa? Come può non risultare ridondante qualsiasi aggettivo, dal momento in cui considero che non posso pretendere di osservarla, la vita, dal di fuori? Ciascuna definizione può valere quanto un’altra e risultare contraddetta da qualsiasi altra. La vita potrà sembrare indubbiamente terribile o meravigliosa, ma relativamente al confronto, cioè nel soppesarsi reciproco delle vite concrete e singolari di ciascuno. Secondo una logica della misura, una logica del più e del meno.
A tale logica della ragione qualcosa necessariamente si sottrae ed è questo qualcosa il transfinito che, però, la rende preziosa. La vita può sempre travalicare se stessa. Definendo miracolosa la vita, è proprio questo qualcosa che non vorrei trascurare; vorrei, insomma, proporre la legittimità di un aggettivo da aggiungere comunque alla vita; un aggettivo, ovvero qualcosa di superfluo che la affranchi da una definizione compiuta. Se la vita è vita nella parola, lasciamo dunque che la parola si sbizzarrisca per dirla. E’ l’Altro a imporre gli aggettivi che sono adatti a descrivere la vita, senza peraltro esaurirne la complessità infinita. L’aggettivo, l’Altro con cui descrivo la vita, in realtà la fanno esistere concretamente ciascuna volta, la creano, la costruiscono per ciascuno. Anche qui l’aggettivo si rivela pragmatico in senso assoluto e finisce per trionfare sulla ragione calcolante. E’, infatti, per l’esistenza di un aggettivo che la vita può rivelarsi non totalmente compresa o asservita al senso e alla ragione. E’ per l’esistenza di un aggettivo che per essa non varranno più le congiunzioni logiche elementari pertinenti alla ragione; la causa, l’identità, la genealogia, il terzo escluso e così via. Ed è ancora l’aggettivazione a dissolvere una ragione calcolante nella ragione miracolosa dell’Altro.