Seminario del 31.7.2008
Voi non siete presenti innanzi a me questa sera
Il riscontro nel fatto, di una previsione che abbiamo creduto di scorgere ad esempio nelle immagini di un sogno, per potersi considerare veridico necessita del riferimento a un mondo fattuale già dato. Ciò appare scontato! Tuttavia, è proprio il mondo cosiddetto dei fatti che si vorrebbe mettere anzitutto in questione, per interrogare in un secondo momento l’autenticità della predizione. Se la verifica di una previsione parrebbe ammissibile quando sia rilevata una corrispondenza con il fatto, occorre bensì considerare che il sogno è al di là di una banale corrispondenza di tempo lineare con il mondo della realtà. In vario modo abbiamo indicato che il sogno informa la realtà coinvolgendola, che la cosiddetta realtà dei fatti non è scindibile in alcun modo temporale dal sogno. Il mondo del sogno non è originariamente e quindi immediatamente contrapponibile al mondo dei fatti.
Potremmo, invero, parlare di un mondo dei fatti senza il sogno? Ciò che chiamiamo fatto è prima di tutto un fatto di parola (d’altra parte, il fare non conosce alcun fatto, ma solo il gerundio facendo), e non può essere estratto dall’enunciato con il quale lo stiamo raccontando. Non esiste alcuna realtà oggettiva di un fatto. La sostanza di un fatto può consistere unicamente nell’accordo con cui si fissa una convergenza intorno alla descrizione che ne facciamo, e tale descrizione si decanta immancabilmente nella spoglia di un enunciato sterile.
Nell’enunciato il tempo è già assegnato; un passato rappresentato dal detto, un tempo invischiato. In qualche modo il dire è perduto, insieme con il tempo originario. La funzione svolta proprio dal sogno, nel nostro dire, nel nostro raccontare, è quella di rianimare e far lievitare questo enunciato, quella di scioglierlo da un verso sterile del tempo sostanziale e ricondurlo al gerundio della vita. In mancanza del sogno un enunciato non può convertirsi nell’enunciazione. Se vengono meno le funzioni del sembiante (ombelico del sogno), metafora, metonimia e catacresi, un enunciato rimane invischiato nel fantasma materno.
Di un’attesa, possiamo anche asserire che è congruente o meno rispetto al fatto cui essa si trova a corrispondere. Questo, nella veglia, o meglio nella rappresentazione del dire, nel pensiero che può caratterizzare la nostra veglia. Nel sogno, essendo il nesso causale e temporale dissolto, questa contrapposizione fra verità o menzogna non ha più consistenza. Possiamo, al massimo, parlare di profezia nel sogno, ma dovremmo precisare questo termine: la profezia è al di là del fatto cui essa rinvierebbe. La profezia concerne piuttosto la proprietà a-temporale (rispetto ai fatti) del significante. Il tempo è il tempo del significante. Considerare il sogno come una previsione significa voler far corrispondere illusoriamente la dimensione pragmatica con quella frastica della parola. Un’operazione nevrotica e destinata allo scacco. La profezia è profezia della parola e non ritrova alcuna corrispondenza nel mondo dei fatti, ma in quello delle parole. Abbiamo già notato come il nome si collochi oltre il tempo e lo spazio della veglia, oltre il tempo e lo spazio degli accadimenti.
Un fatto è solitamente raccontato secondo l’ipostasi del presente. Ma un fatto non è mai presente. Una cosa non è mai presente. Il mondo non è mai presente innanzi a noi. Ciascuno di voi non è mai presente. E’ certo che voi non siete presenti dinnanzi a me questa sera.
Un fatto, nondimeno, è investito dalla credenza di essere vero. Ma allora si tratta di un fatto rappresentato, appunto, convertito al presente. Un procedimento del raccontare che non ha nulla a che fare con quello del sogno. Un modo ripudiato dal sogno, un modo non pragmatico del racconto. Un modo temporale del racconto che si fonda sulla credenza nel tempo lineare che presumiamo sia stato assegnato alla veglia.
Siccome il sogno, tuttavia, informa anche la veglia, è questo il motivo per cui non arriviamo a scartare fino in fondo l’ipotesi della predittività del sogno, purché la intendiamo come attualità del racconto. Il racconto è a-temporale, nella sua dimensione originale del sogno. Non è relegato nel passato, nel presente o nel futuro. E’ libero, come libera è la parola creatrice e come libero è il sogno. Al modo in cui notavamo circa il nome, si potrebbe asserire che il racconto stesso dimora ovunque (in ciascun tempo e in ciascun luogo), ma siccome non è rappresentabile, cosa dunque ne resta di “concreto” per cui saremo in grado d’indicare un legame tra l’immagine particolare del sogno e quell’evento relativo alla veglia?
Freud, ben lo sappiamo, questo nesso causale (fra immagine ed evento della veglia) lo ha inventato, ma lo ha riferito unicamente al passato e, almeno in apparenza, è relativamente agevole, sulla scorta del suo insegnamento, scrivere il collegamento fra l’evento della veglia e la sua comparsa camuffata variamente nel sogno. Questa è l’invenzione bellissima che nondimeno si tratta ora di leggere diversamente, che si tratta di dis-leggere operando almeno strategicamente un ribaltamento, proprio per ritrovare incorrotta la complessità della scoperta freudiana. Ancora è rinvenibile nel testo freudiano quello sfasamento che ci indurrebbe a credere nel discorso come causa, anziché nel sembiante. Occorre pertanto interrogare in modo ancor più articolato di quanto Freud abbia fatto, il lavoro di mascheramento del sogno.
Si tratta infine di riconoscere che l’alterazione, questa mascherata è proprio inevitabile. Non è il prodotto di alcun calcolo o di un ragionamento del sogno (d’altronde, Freud stesso insisteva sul fatto che il sogno non ragiona, non calcola e non risolve problemi). Questa alterazione è dovuta al fatto che non possiamo includere, a priori, nessun evento in una serie o successione temporale (sia nel sogno che nella veglia).
E’ dovuta al fatto che la cosa in realtà non è coglibile, che la cosa non è presente, anche e soprattutto quando ciò parrebbe innegabile perché in apparenza saldamente ancorata in un fatto, in un tempo che sarebbe reperibile a ritroso, nel passato.
Un analizzante sogna di trovarsi in un luogo pubblico, forse un immenso anfiteatro, dai confini incerti, e sta discendendo per una lunga scalinata in compagnia della madre che lo segue di qualche gradino, mentre si dirigono entrambe verso ciò che parrebbe il centro della scena. Qualche attore si muove confusamente sul palco che ora non è più che un semplice spiazzo erboso. Deluso, si volta per risalire e nota con grande sorpresa che la madre sta già risalendo lungo la scalinata, ma (e questa è la grande sorpresa da cui è colto al ricordo nella veglia) che lo fa retrocedendo con grazia, un piede dietro l’altro, mantenendosi sempre di faccia alla scena. La figura materna che sta arretrando è diafana, quasi trasparente, mentre il volto continua a sorridere e pare sempre più ringiovanire. Anche la scena del sogno gli pare divenire sempre più chiara, con una luce sempre più intensa che inghiotte ogni cosa.
Come interpretare questo sogno? Meglio semplicemente intitolarlo: “la trascendenza del sogno”. Oppure, “il sogno che basta a se stesso”. O ancora, “la vita è sogno”.
Il sogno è l’istanza della trascendenza. E’ l’istanza della non rinuncia alla vita.
Il profumo dei fiori quale originario fondamento
“Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. (…) Non stava sognando. La sua camera, una normale camera d’abitazione, anche se un po’ piccola, gli appariva in luce quieta, fra le quattro ben note pareti” (Franz Kafka, La metamorfosi, Garzanti, pag. 21).
Ma il nostro Gregor non sta davvero sognando, quanto più gli parrebbe d’esser desto e quanto più gli appare in luce stabile ciò che lo attornia? E l’insetto non è l’indice del tempo Altro che potrebbe inquietarlo anche lì, che anzi è suscettibile, forse proprio perché insospettato, d’irrompere in modo più fulmineo e tanto angoscioso?
Nella vita comune a ciascun giorno, come suol dirsi, quando siamo nella quiete delle ben note pareti e la vita in apparenza scorre distesa, lontani e smorzati i rumori della strada e della città, in tale condizione siamo tratti alla convinzione che gli oggetti, mobilio e suppellettili da cui siamo attorniati, consueti fra le nostre ferme e bianche pareti domestiche, rappresentino una solida e buona raffigurazione della cosiddetta realtà. La distensione della nostra attesa, nel presente immoto, sembra confermare la supposizione di una realtà originaria. Ma la fiducia nella realtà della nostra percezione ordinaria è davvero ben riposta? Potremmo intanto chiederci che ne sarebbe di questa nostra attesa e distensione senza il rumore soffocato della strada, senza il superfluo e indefinito brusio ritmato che la circonda, senza il lamento di una sirena che trascorre e si spegne in lontananza.
Non è piuttosto quello stesso brusio attenuato a conferire una modalità temporale differente alla nostra attuale condizione casalinga? Una sospensione che è un rinvio indefinito verso qualcosa di apparentemente superfluo che, tuttavia, agisce dal profondo. Quell’insetto irrompe a sconvolgere la comprensione ordinaria come se, bruscamente, le pareti potessero allungarsi indefinitamente e la stanza rastremarsi verso l’alto, alterando la percezione dello spazio alla maniera inquietante di un quadro espressionista. Dentro o fuori, prima o dopo, si svelano allora quali categorie della ragione che entrano in funzione soltanto quando siamo immobili nella rappresentazione.
Comunque la mettiamo, le cose non abitano il presente e la nostra dimora diviene per noi sopportabile a patto che vi sappiamo abitare nella sospensione, nell’intervallo, nel contrappunto di quel brusio indistinto, nel ritmo dell’Altro. Il presente potrebbe sempre annichilirci. E basta accomodare un mazzo di fiori, predisporre altrimenti, più accuratamente il mobilio, profumare l’ambiente oppure, banalmente, mettere ordine al nostro alloggio, per avvertire come quell’apparenza statica e concreta dell’ambiente in cui dimoriamo (il presente) sia in procinto di dissolversi per acquisire una nuova leggerezza, secondo un ritmo che ancora e sempre è il ritmo della parola originaria.
Oltre le nostre pareti domestiche, in un luogo indistinto che non è più l’esterno, poiché trascolora nella musica e nel ritmo del sogno, persiste quella realtà originaria che mette addirittura in questione l’apparente solidità della nostra percezione e che anzi si rivela quale suo fondamento. Ecco il movimento del sogno, ecco il sogno diurno in cui siamo immersi anche quando ci parrebbe di essere del tutto svegli e nella condizione della massima ricezione percettiva. Ecco il sogno che dimostra come viviamo anzitutto e sempre in un mondo simbolico e che la nostra vita è proprio questa, cioè, immersione in un racconto che procede interminabile; senza scorrere, giacché ciascun istante continua a puntare semplicemente verso l’eternità. Precaria eternità nella parola, è la nostra condizione abituale di vita e di sopravvivenza.
Anzi, è proprio nella condizione della nostra massima ricezione percettiva, che noi siamo, oserei dire, quasi sempre assaliti dal sogno; il sogno irrompe fra le nostre pareti domestiche, dalla cerchia più esterna, attraverso i rumori della strada; non nasce e non si sviluppa dentro di noi, perché il sogno non è che una condizione del racconto. Originariamente non siamo altro che il racconto della nostra vita. Ma il sogno non ci assale da qualche punto imprecisato esterno, si insinua evolvendosi dalle pieghe del nostro stesso racconto. Il nostro racconto è insieme fuori e dentro ed è pertanto la condizione del nostro racconto a offrire la possibilità di definire un dentro e un fuori e un prima e un dopo. La nostra casa, il nostro alloggio affonda esso stesso nel racconto della nostra vita, il mondo che ci circonda è immerso nel racconto del sogno.
In realtà, quando ci pare di essere immobili e attendiamo più o meno quieti nel chiuso delle nostre pareti domestiche, noi attendiamo kafkianamente affondati nel centro della nostra rappresentazione. Confitti nel centro, come l’uomo di Vitruvio.