Seminario del 13.11.2008
E’ con ironia, non per un eccesso di presunzione o per difetto d’umiltà, che ci sentiamo di rivolgere alla psicoanalisi di oggi (in particolare quella che si crede depositaria del verbo lacaniano) quella critica che S. Paolo nella lettera ai Corinzi rivolgeva ai glossolalici. A costoro l’apostolo non rimproverava tanto la parlata scolastica, l’esoterismo o il plurilinguismo, quanto il fatto che nel loro intervenire e nel loro predicare fosse assente la profezia. Fra i glossolalici e i profeti, la sua simpatia era accordata decisamente a questi ultimi.
In effetti, si può dire che i glossolalici credevano di supplire con il sapere e con il loro linguaggio esoterico alla limitatezza della relazione pragmatica (e oggi aggiungerei anche, clinica). Mentre per i profeti era la relazione originaria a produrre il sapere in quanto effetto, i glossolalici abusavano nel trincerarsi in un sapere formale con cui intervenire, presuntivamente, nella relazione (clinica).
I glossolalici si servivano del carisma delle lingue e “chi parla con il dono delle lingue edifica soltanto se stesso, mentre chi profetizza edifica l’assemblea”. Non basta a conferire il dono della profezia la parlata della lingua sconosciuta, non bastano la suggestione e il mistero, il sapere della lingua, ma occorre l’enigma, occorre il dire che procede direttamente per rivelazione divina e che segue la traccia inconfondibile della verità. Il parlare ispirato che può essere inteso da ciascuno secondo la propria possibilità di comprensione.
Nelle culture in cui non è stato riconosciuto l’originario della parola e la sua efficacia, è più diffusa la preveggenza e, rispetto al profetismo (al carisma dell’Altro), prevalgono gli indovini del sogno. Una conferma di tale asserto si potrebbe certamente trarre dalla constatazione della presenza quasi esclusiva della profezia nell’ambito del monoteismo e nelle religioni rivelate. E, per contro, dalla presenza massiccia della concezione preveggente del sogno in quasi tutte le altre religioni.
Accennando ancora al passato, possiamo considerare la Bibbia stessa come un grande e ineguagliabile sogno dell’umanità, dove tutte le profezie che vi sono narrate sono il modo in cui è trasmessa agli uomini direttamente la parola di Dio. Benché sia diffusa l’opinione negativa sul sogno, almeno sull’oniromanzia, considerata spesso come il residuo superstizioso di un atteggiamento popolare religioso, troviamo nel Talmud il luogo dove compare la più attuale e rigorosa indagine sul sogno inteso quale strumento di verità e conoscenza. E in sintesi, per quanto a noi interessa, sul sogno quale gioco di parole (rebus, omofonia, anagramma, allegoria, ecc.) rafforzando pertanto l’impressione di un’effettiva convergenza fra verità ed enigmistica nel sogno. Almeno nella tradizione monoteistica ebraica, ma per molti aspetti anche nel mondo greco e cristiano, il sogno profetico è veritiero soltanto in quanto sia rilasciato per enigma. E l’accentuazione della considerazione del sogno quale messaggio che proviene da Dio, contribuisce di riflesso a sminuire l’importanza del sogno di preveggenza o mera predizione del futuro, per consegnare il sogno e il racconto nelle mani di una temporalità Altra che poco ha da spartire con la piatta linearità del tempo umano.
La realtà non è mai una realtà di fatto. La realtà si presenta originariamente nella forma dell’oracolo o dell’enigma. Anche il futuro, per quanto sia dato a noi di scorgervi, non è autentico che nella forma dell’enigma. E proprio come l’oracolo, è per enigma che non può che rispondere il sembiante. Nessun altro modo è possibile. Nessun fatto, nessuna scena può essere oggetto di previsione. Il fatto come la scena sono sottratti al tempo originario e, per essere descritti, richiedono l’inserimento nel tempo lineare che è un tempo, appunto, immaginario. Non è mai il questo ciò cui rinvia l’atto dell’analista, ma il come; sospensione dal presente e accesso al tempo della parola. La sua allusione o la sua indicazione non può che manifestarsi nella forma del monito o del plauso, del rimprovero o dell’approvazione. Il che non vuol dire che l’analista non sia profeta. Se l’oggetto nella parola non ha tempo, esso è già qui per l’analizzante e all’analista compete l’atto di annunciarne la presenza velata.
All’oggetto nella parola, il sembiante, non si può che alludere, non si può che rinviare per enigma. Una frase fallisce sempre il sembiante e ne restituisce una banale rappresentazione.
Consideriamo ora un indovinello (che possiamo considerare un enigma in versi, semplificato). Anzitutto è il caso di notare che il titolo dell’indovinello, nel nostro caso “La vecchia nonna”, è sempre fuorviante e certamente molto lontano dall’oggetto che si cela nei versi enigmatici (l’oggetto subdolamente manifesto nel senso palese dell’indovinello non è che l’oggetto individuato dalla frase; è menzognero).
L’indovinello è il seguente: “lavora d’ago fino a mezzanotte/per aggiustare le mutande rotte”. Ma! Come procedere per la soluzione? Occorre, proprio come nel sogno e nel rebus, sospendere l’attenzione dal significato manifesto della frase; occorre dunque cercare l’equivoco, giocando sulle parole chiave. Nel nostro caso le parole che si prestano a sostenere un senso plurivoco sono precisamente “ago” e “mutande rotte”. L’ago che può indicare anche l’ago della bussola, oltre a quello da cucito, e “mutande rotte” che rinvia alla rotta della nave che l’ago della bussola può appunto correggere.
Il sembiante, l’oggetto nella parola, richiede il pragma e potrà essere accostato soltanto risalendo, per così dire, a ritroso lungo le sue stesse funzioni. E’ la sola strategia che ci consente di saperci fare con esso dal momento che rimane inafferrabile. Dal momento che è destinatario ma anche destinatore. Se prestiamo attenzione all’equivoco, alla menzogna, e pertanto distogliamo l’attenzione dal senso fissato del nome o della frase, potremo soltanto così approcciare l’oggetto nella parola. A differenza, però, del semplice indovinello, che rilascia quella che appare come una soluzione convincente, l’oggetto della parola richiede la persistenza dell’enigma e, dunque, la sua soluzione impossibile. Senza generare l’illusione di afferrarlo, se non per fraintendimento, questo oggetto. In generale, l’indovinello è ancora una rappresentazione inadeguata del sembiante.
Già. La soluzione dell’indovinello non basta ad accordare soluzione alla vita. La vita è senza soluzione.
Inoltre, questa presenza dell’oggetto non ha nulla a che fare con il presente. Che il sembiante sia causa di profezia significa che non dimora nel tempo lineare. Tanto meno nel presente. Se l’oggetto, per definizione, è ciò che si getta contro, e il sembiante ne occupa il posto, allora il sembiante, inconsapevolmente, risponde come un oggetto e può indicare quale distanza separi l’analizzante dall’oggetto. Il suo atteggiamento può essere precursore dell’accadere dell’oggetto o del suo scostarsi irrimediabile. Nella parola che si fa sembiante e che diviene pertanto oracolo (e che traspare come una risposta adeguata anche nei gesti e nell’atteggiamento), l’analista non allude a nessuna scena particolare e a nessun fatto, ma a ciascun evento possibile. Contrassegna ogni fatto e ogni scena con un non.
Questa bella intuizione è di Stefano Bartezzaghi, studioso, giornalista e figlio d’illustre enigmista:
“La profezia è una forma di enigmistica applicata al tempo, ovvero l’enigmistica è una forma di profezia fuori dal tempo. Nel linguaggio della profezia sono entrati enigmi, anagrammi, cruciverba, crittografie, rebus, come tecniche di divinazione o di esposizione della divinazione.”
Ecco dunque l’enigma, che scorre fuori dal tempo.
La sfinge, l’oracolo, non può dare la risposta all’enigma che pone ad Edipo. Giacché non la conosce prima di porla. E si potrebbe aggiungere che, una volta risolto l’enigma, la sfinge non può che scomparire, precipitando nell’abisso, come il mito attesta, perché non ha più alcuna ragione di sopravvivere una volta sciolto l’enigma di cui essa stessa non è che allegoria. Un essere che cammina a quattro gambe, uno che cammina a due, oppure a tre gambe, non è una descrizione che esaurisce le possibili verità dell’uomo.
L’enigma, in quanto tale, deve non ammettere alcuna soluzione. Mentre il calcolo suppone l’errore di calcolo per avviarsi a una soluzione, l’enigma è risolvibile soltanto con la logica che è sempre provvisoria e quindi non ammette una soluzione che sia definita. Inevitabilmente l’oggetto precede ogni sua ragione possibile di esistenza. In effetti, l’oggetto è per sua natura velato e dimora nella sembianza.
Impossibile prevedere il futuro; varrebbe a credere che sia possibile catturare il sembiante. Varrebbe l’ipotesi dell’Altro dell’Altro, una predizione della predizione. Se il tempo è nella parola.
Le complesse figure del sogno, le innumerevoli composizioni fra parola e immagine delle quali Freud ci fornisce un ricco repertorio, sono precisamente e nient’altro che enigmi. E l’inconscio è il gioco della parola, non la sua ragione. L’inconscio è fuori del tempo della ragione. Nessuna ragione possibile sull’inconscio, sull’Altro, perché ciascun ragionamento non può evitare la menzogna. Una menzogna che ritrova la ragione sempre fondata sul non.
Soltanto l’enigma parrebbe essere in grado di proseguire su questo litorale incerto fra il dentro e il fuori, fra il prima e il poi.
Correggiamo, dunque, Bartezzaghi. Certo, la profezia è una forma di enigmistica applicata al tempo, ovvero è una forma di profezia fuori dal tempo. Non è il caso, tuttavia, di esser modesti; l’enigmistica non è una forma fra le altre della ragione, bensì è l’unica forma possibile di profezia, ed è fuori dal tempo nel senso che è proprio essa a costruirlo e inventarlo. Quando la ragione si confronta con la profezia, vale a dire con l’enigma dell’inconscio, allora essa ci rivela le sue imperfezioni. Nessuna logica che possa sostenersi senza il non. E l’inconscio non conosce la negazione, come è ancora Freud sottilmente ad annotare.
L’inconscio, il sembiante, è profeta. Alcunché possiamo dire dell’evento che non sia subito compromesso e degradato, quando lo situiamo nel tempo lineare, nel passato, nel presente o nel futuro.
Quel che vale per il passato deve valere anche per il futuro. Passato, futuro (e presente) non sono che modalità della frase di comporsi nel discorso. Il passato, il presente e il futuro riguardano soltanto l’enunciato. Non sono attributi del pragma e, dunque, non riguardano la vita.
Nella sua essenza, l’enigma esprime il ripudio della frase conclusa e l’evocazione della parola autentica, vale a dire oracolare, quale unica risorsa per disporsi sulla traccia della vita. Pertanto, è reiterazione della domanda piuttosto che risposta conclusiva.
E nel sembiante la profezia si manifesta principalmente come un monito o un semplice avvertimento. Basta un cenno di consenso o delusione, un atteggiamento di distacco o gratitudine, di ripulsa o semplice indifferenza, a rivelare all’analizzante la sua posizione nei confronti dell’Altro, la sua posizione nei confronti di un evento e del modo in cui tale evento si troverà accolto nell’Altro, più o meno in armonia con l’Altro. Occorre, evidentemente, un percorso che consenta all’analizzante di sottrarsi alla proiezione, al giudizio, alla resistenza o alle difese che originavano dall’abbaglio di confondere la risposta che dovrebbe essere dell’Altro con quella dei propri simili nella quale è più o meno invischiato. L’atteggiamento del sembiante occorre che sia infine riconosciuto dall’analizzante come un indice della sua posizione nei confronti dell’oggetto nella parola. E non valutato secondo i criteri della ragione calcolante. In questo percorso di riconoscimento consiste il progresso di un’analisi e le sue oscillazioni inevitabili.
In tal senso, lo stupore dell’analizzante che si trova confrontato con una temporalità Altra sarà caratterizzato dalla costrizione ad abbandonare la rivalsa o l’incondizionata accettazione dell’evento. Lo stupore dell’analizzante consiste nel ravvisare ciascuna volta che il sembiante (impersonato dall’analista) si presenta allo stesso tempo come un interlocutore che è destinatario, ma anche destinatore della sua parola. E’ stupore per la contraddizione ora evidente dell’enunciato in cui era asserragliato e al quale aveva affidato la fiducia incondizionata del suo agire. Lo stupore dell’analizzante è lo stupore nei confronti della parola originaria, fuori dal tempo; è, ancora, stupore nei confronti del miracolo. E’ quindi fuoriuscita dal tempo lineare e accesso alla realtà temporale del sogno e del racconto. Accesso all’unica realtà nella quale valga davvero la pena di abitare.
Infine, nel racconto scorre in qualche modo anche il futuro, ma vi scorre nella forma dell’enigma, quindi impossibile da rappresentare. Vi scorre come tensione animata dal profilarsi di un senso che è costretto incessantemente a rinnovarsi e a cui non è concesso di riposare adagiandosi nell’enunciato o nella frase conclusiva. A cui non è concesso il riferimento a fatto alcuno. Vi scorre, dunque, come semplice avvenire. E l’avvenire non riguarda per nulla la scena o l’evento futuro, ma lascia intendere come la scena e l’evento che verranno, in ogni caso saranno in balia delle vicende della parola. L’avvenire è originario e il futuro è quanto ne rimane una volta estirpata la parola. Viceversa, il futuro non è che l’avvenire se questo giace imprigionato nella frase.