LOS VERSOS DEL OLVIDO – Recensioni varie – Gabriele Lodari – Giorgio Biondetti
“Los versos del olvido” di Alireza Khatami
PUBBLICHE RECENSIONI IN RETE
Simona Busni (cinematografo.it)
Il protagonista della storia raccontata nel primo lungometraggio dell’iraniano Alireza Khatami è il vecchio custode di uno sperduto e fatiscente obitorio. L’uomo non ricorda il suo nome, nonostante possieda una memoria prodigiosa. Trascorre le sue giornate prendendosi cura delle lapidi e aiutando tutte quelle persone che si rivolgono a lui per individuare i corpi dei propri cari “scomparsi” – ci troviamo in una qualche variante ucronica del Cile dei desaparecidos. La sua compassionevole opera sembra animata da un’afflizione molto profonda, legata al ricordo di un’antica perdita. Gli orbitano intorno una serie di personaggi altrettanto misteriosi e tormentati: un becchino ossessionato dalle storie dei morti che deve interrare di giorno in giorno, una donna inconsolabile alla ricerca di una figlia scomparsa e l’autista del carro funebre alle prese con un passato difficile. In seguito all’irruzione delle milizie militari, l’uomo scopre in un sacco mortuario il cadavere martoriato di una giovane donna sconosciuta. Il desiderio di concederle una tomba dignitosa lo spinge ad intraprendere una sorta di viaggio mistico nel corso del quale attraverserà deserti e si imbatterà in labirintiche biblioteche sotterranee ed enormi cetacei volanti.
Los versos del olvido è un sorprendente poema sulla memoria, sull’immaginazione e sul linguaggio, ricco di suggestioni filosofiche e letterarie: da Paul Celan a Martin Heidegger, passando per il realismo magico di Gabriel García Márquez e per i racconti di Jorge Luis Borges. Non è semplicissimo orientarsi nella foresta simbolica dei riferimenti e si finisce per restare aggiogati dalla potenza visionaria delle immagini, meravigliosamente fotografate in un riverbero di toni che spaziano dall’oro al verde-azzurro. Attraverso lo sguardo struggente del protagonista (interpretato dall’attore spagnolo Juan Margallo), il regista dipinge un raffinato apologo materico che ci restituisce poeticamente il senso terribile di una tragedia universale senza tempo.
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Anonimo (anonimacinefili.it)
“Los Versos del Olvido: tra ricordo, compagnia e magia”
Los Versos del Olvido (titolo inglese Oblivion Verses) è un film girato in Cile, in lingua spagnola, da un regista iraniano, grazie a una co-produzione fra Cile, Francia, Olanda e Germania. Ciò fa di questa pellicola, presentata nella sezione Orizzonti della 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nonché vincitrice del premio per la miglior sceneggiatura nella medesima categoria, una storia cosmopolita, di respiro mondiale.
Quando è salito sul palco, Alizera Khatami (regista e sceneggiatore del film), ha ringraziato sinceramente Guillermo Del Toro, per avergli insegnato tanto in materia di cinema ed in particolare di fantasy. Perché Los Versos del Olvido è per molti versi figlio del cinema del regista messicano. La vicenda del protagonista, un uomo che lavora senza sosta in un isolato obitorio fuori città, avviene all’interno di un quadro storico ben preciso ma non precisato: apprendiamo da titoli di giornale che nel paese sono in corso diverse contestazioni, per cause che non ci vengono raccontate. Il protagonista, il cui nome non viene mai rivelato, all’alba della chiusura dell’obitorio, decide di dover seppellire il corpo di una giovane morta durante queste contestazioni, sulla identità della quale non ha informazioni.
Da qui si apre una lunga odissea burocratica e pratica per dare una degna sepoltura e un funerale a questa giovane donna.
Los Versos del Olvido è girato con grande rigore, costituito da inquadrature fisse che non sono mai lunghe o noiose, come invece spesso succede in questo genere di cinema indipendente, la maggior parte delle volte forzatamente “d’autore”. Invece Khatami riesce a portare lo spettatore all’interno di un clima riflessivo, meditabondo, soffuso, fotografato benissimo, in modo sempre luminoso, con il sole sempre alto. Più che sentire la lontananza dalla città e della vita lo spettatore sente la calma e la pace di un luogo isolato e silenzioso, a suo modo rilassante.
Per quanto a tratti il film sembri impenetrabile e difficile da comprendere, l’idea di Los Versos del Olvido è quella di mettere l’accento sull’importanza del ricordo, del passato e soprattutto della compagnia; il protagonista del film non vuole lasciare la giovane morta ad una sepoltura casuale o ufficiosa, bensì si impegna, fra uffici e burocrazia infinita, per donarle un diritto fondamentale come quello del funerale. In termini musicali, la pellicola di Khatami si potrebbe descrivere come una lunga sinfonia “ambient”, à la Brian Eno, nella quale ci si perde e disperde volentieri. Da non sottovalutare poi la pregevole interpretazione dell’anziano protagonista e l’ingresso nella storia della “magia”, inserita quasi in filigrana.
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Giancarlo Zappoli (mymovies.it)
Il vecchio custode di un obitorio ha una memoria impeccabile ma non ricorda i nomi. Trascorre le sue giornate mostrando i cadaveri ai parenti dei defunti e accudendo le sue amate piante. Quando la protesta in una vicina città si fa più sanguinosa e la milizia accede segretamente all’obitorio per nascondere le vittime civili, l’uomo scopre il corpo di una giovane donna sconosciuta. Sente di dover assicurare alla giovane una degna sepoltura e, con l’aiuto di un becchino, una vecchia donna in cerca della figlia persa molto tempo prima e di un guidatore di carri funebri si impegna per portare a termine il compito che si è prefisso.
Alireza Khatami, che è stato assistente di Asghar Farhadi e che giunge ora al suo primo lungometraggio, può finalmente esplicitare sullo schermo emozioni che non ha mai rimosso dal suo animo di bambino.
Durante la guerra Iran-Iraq i vicini di casa ebbero il figlio classificato come disperso senza avere quindi almeno un corpo da piangere e seppellire. Ora il regista traspone questa vicenda in un immaginario Paese dell’America Latina nel cui cimitero e obitorio lavora un uomo che ha cura dei trapassati. Ne ha cura perché avverte la dignità della morte e ritiene che non ci si possa esimere dal tributarle onore. Novello epigono dell’Antigone sofoclea sente di non poter sottostare all’occultamento di un cadavere così come vorrebbe chi rappresenta il potere.
Khatami ha utilizzato una frase di Heidegger contenuta in ‘Essere e tempo’ quale punto di riferimento a cui tornare (lui e gli attori principali) per approfondire il senso del loro agire sul set. Heidegger scrive: “Per poter restare in silenzio, l’esser-ci (il Dasein) deve avere qualcosa da dire”. Con ‘esser-ci’ si intende non una precisa collocazione spazio-temporale ma il modo in cui l’Essere si esplicita nell’esistenza degli esseri umani. Khatami non ha bisogno solo di elementi realistici per comunicare questa esigenza esistenziale. Fin dall’inizio fonde la concretezza della terra che viene spalata per poter preparare una sepoltura con la necessità per il becchino di conoscere la ‘storia’ di chi vi verrà sepolto. Così, tra non vedenti che predicano in chiesa e notizie su cetacei spiaggiati, costruisce un pamphlet contro il potere che ha il lontano retrogusto di alcune pagine di Gabriel Garcia Marquez.
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Erik Negro (cinelapsus)
Un film è prima di tutto un luogo pensato, visto, girato. Questa piccola storia di memoria ed affetto, particolare quanto affascinante, sarebbe potuta germogliare prima in Iran, poi in Turchia, e invece si è ritrovata nel destino in un altro continente; rispostata come se fosse in un certo senso strappata dall’idea e impiantata nello spazio cileno, in cattività. In realtà per l’osservatore tutto ciò non è comprensibile proprio perché le radici di Los versos del olvido, primo lungometraggio del regista iraniano di nascita ma ormai stabilito fra USA e Francia Alireza Khatami, presentato a Venezia74 nella sezione Orizzonti, sono essenzialmente legate alla cultura sudemericana, dalla narrazione alla simbologia, profonde quanto indissolubili. Siamo in un paese remoto del Cile più sconosciuto, dove un anziano custode, pensieroso e apparentemente strambo, lavora solitario al suo obitorio, sempre più vuoto perché il nuovo in città si è portato via tutto il lavoro (i morti). Possiede una memoria spaventosa quanto la sua libreria, ma non riesce proprio a ricordare i nomi (a iniziare dal suo) di chi in quel cimitero va ad abitare; le sue lentissime giornate scorrono uguali, tra i parenti dei defunti che gli fanno visita, le piante da accudire e i brandelli dei propri ricordi da cui è continuamente tormentato. Sarà la guerra (o forse la rivoluzione, o forse la rivolta) a scardinare questa quotidianità, a richiamare dentro di se il senso dello stare in quel luogo, di una veglia continua e picaresca nei confronti della morte. Nell’obitorio rimane solo un corpo, quello di una ragazza sconosciuta, dimenticata. L’ultima missione del nostro eroe sarà quindi quella di seppellirla, renderle un minimo di giustizia. Con lui, un becchino filosofo che schernisce il fato avverso compiacendolo, una madre anziana che ancora è in cerca della figlia scomparsa nel mistero, e di un eccentrico autista il cui passato lo continua ad addolorare. In questo cortocircuito di anime fragilissime ma coraggiose, emerge il senso della morte come aspetto intrinseco della vita, ma meno subdolo, intricato e breve, essenzialmente meno stronzo.
Tutto quello che vediamo è simbolico e metaforico, i rimandi sono spesso espliciti e visionari. Partendo proprio da Ruiz e Borges, due pilastri della cultura latino-americana del novecento, dal loro misticismo onnivoro di immagini e parole, Heidegeer e Bergson disegnano il tempo, Celan e Marquez il mistico, Buñuel e De Oliveira la narrazione. Il risultato è un quadro a tasselli in cui la fittissima trama intertestuale convive con un’indubbia potenza visionaria, di toni lievi e caldi, di inquadrature ricercate e primi piani strazianti, di pianisequenza impercettibili e abitati spesso dal solo protagonista. Tutto questo collima sempre nel senso della perdita, molto più presente rispetto a quello della morte, anche se continuamente viene evocata. Quasi come se ancora esistessero i desaparecidos, o almeno coloro dimenticati dalla storia e scomparsi per sempre all’affetto dei propri cari. Allo svuotarsi delle celle, al veder fuggire quei corpi, il nostro eroe si intristiva, quasi come se quel lavoro fosse una missione profonda, un qualcosa che l’aveva toccato nell’inconscio. I morti possono essere amici quanto i vivi, perché le loro anime oramai distanti sono portatrici di avventure. L’espediente filmico è quello della favola in flusso, qualcosa che possa attraversare desideri e ossessioni, che non affronti nessuna logica del reale camminando su un altro piano, che viva totalmente in una dolce e tragica indeterminazione di tempi e spazi, caratteri e comportamenti, gesti e volti. La rivelazione di questa esperienza è così il viaggio mistico di una sepoltura, quasi potesse essere formativo e giocoso, tra deserti da attraversare verso un monolite, balene spiaggiate che cercano di ritrovare il mare, biblioteche strettissime e infinite, labirinti del senso e dei sensi. In fondo a tutto ciò solo una spiaggia, la fine come l’inizio.
Los versos del olvido è un film coraggioso e molto intimo, che affronta i fantasmi dell’autore come quelli dello spettatore. È un film realizzato nell’ottica, quasi romantica, di qualcosa che possa lottare incessantemente contro l’amnesia come il nulla, nella consapevolezza che davanti al vuoto non possiamo non provare paura. È un film che riscrive lingue e mappature, che si sposta in luoghi e tempi verosimili, perché non esige coordinate (o forse le rifugge). È un film che in ogni inquadratura si chiede cosa sia ineluttabile e cosa provvisorio, brindando alla morte perché in definitiva forse è più rispettosa della vita, o almeno ne è solo una conseguenza. È un film che vive di necessita etiche molto più forti di quelle estetiche, di lotta contro la violenza dell’oblio e di resistenza nei confronti della poetica del ricordo come del frammento. È un film che ci definisce la percezione di una memoria totale che vive in un piano parallelo al nostro, quello della durata e quello dell’amore. Una memoria inestirpabile, seppur nascosta, che vive proprio in antitesi metafisica all’oblio, perché ciò che ci fa ricordare qualcosa o qualcuno è proprio ciò che avevamo dimenticato. Alireza Khatami in questo film ci insegna che il ricordo è anzitutto comprensione (del mondo, come dell’altro), un qualcosa di non definibile che segna il passaggio nostro e di tutti attraverso la finitezza della vita e donandolo a qualcosa di sconosciuto e infinito come la morte. Più di questo non ci è concesso sapere, e se lo sapessimo probabilmente lo avremmo già dimenticato, come quei versi di poesia che impari a memoria da bambino e di cui oggi ti rimangono solo i fonemi in cui naufraghi ben volentieri. Se, come diceva Borges, il lavoro creativo è sospeso tra la memoria e l’oblio, questo film ne è un simbolo, fatto di mille simboli, assolutamente vero e vivo.
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RECENSIONI TRACCE FREUDIANE
Gabriele Lodari
Ambientato in un imprecisato stato dell’America latina, che potrebbe essere sia l’Argentina che il Cile, racconta delle vicende di un anziano che, mettendo a rischio la propria incolumità, alla vigilia della pensione, si attiva per ricostruire le biografie di alcuni desaparecidos, le cui salme erano state furtivamente portate all’obitorio del quale per anni era stato custode. Sullo sfondo appaiono le immagini di un gruppo di balene morte, dopo essere rimaste spiaggiate. Anzi, il film si conclude con l’immagine dell’unica balena sopravvissuta, che non si rassegna ad abbandonare i cadaveri delle compagne e continua ad aggirarsi con bellissimi tuffi in prossimità del litorale. È l’unico momento del film in cui insieme ai versi, al canto delle balene, appare un breve commento musicale. Per sottolineare la sorpresa e l’emozione.
Il canto delle balene è la loro forma di comunicare con suoni lunghi e a bassa frequenza. E il loro canto, simbolicamente (il simbolo è originario) nel film sta a riassumere il messaggio che il registra sta cercando di trasmetterci lungo questo suo racconto. Messaggio riassunto anche nel titolo “I versi dell’oblio”. La poesia, la musica, e la memoria: ecco il lutto. Inteso intellettualmente come la dimenticanza, cioè come una vitale funzione del sogno e, paradossalmente, come una condizione della memoria. Per il racconto, per la memoria, occorre la dimenticanza. Ma la repressione attuata dai regimi totalitari, cui si allude nel film, consiste proprio nella cancellazione della memoria intesa come possibilità di accogliere ciò che accade riversandolo nel racconto. Precisa e emblematica di questo modo di intendere il lutto (che certamente non coincide con il luogo comune di intenderlo nella psicoanalisi corrente) è la frase pronunciata dall’anziano custode nel mezzo del film: L’errore non sta nell’oblio, ma nell’oblio dell’oblio. In definitiva, la colpa dei regimi totalitari sta nella cancellazione del sogno (e della vita) che è condizione della dimenticanza, e quindi nella cancellazione della possibilità del lutto e della memoria.
Per tornare al miracolo, in questo film il miracolo consiste nella scoperta del canto delle balene e dei loro tuffi in prossimità del litorale come maniera di compiere il loro lutto per le compagne scomparse. Con questo espediente, di mostrare l’universalità di un rituale esteso persino al mondo animale, il regista ci vuole indicare che il canto, l’Altro, la poesia, il racconto, come il sogno, sono fondamentali e originari per ciascuno e che, prescindendo da questi non possiamo non solo individuare ma anche valutare nessun atto, nessuna emozione, nessun pensiero e nessun progetto. Nessuna presunzione: anche il valore non è già dato, non può prescindere dal miracolo e dalla sorpresa. Il valore è il miracolo delle cose che accadono.
Giorgio Biondetti
Se un bel film lascia più tracce, più piani (disgiungibili solo schematicamente) in cui lo spettatore può proseguire, ragionare, smarrirsi…, “Los versos del olvido” (i versi dell’oblio) è un film che sembra sortire inevitabilmente tale molteplicità, pur senza perseguirla esplicitamente, in virtù dell’argomento incoronato dal titolo, come se questo, animato da una autentica e originaria tensione, non potesse che richiamare le svariate sfaccettature di cui compone e rinviare alla modulazione continua di domande e questioni che su di esse s’intrecciano e che, per loro natura inesauribili, rimangono in sospeso in un continuo dire e aggiungere ancora qualcosa di sé.
Una nota spiccatamente altra e suggestiva su i versi dell’oblio rispetto alle recensioni pubblicate in rete, le quali, pur se arricchite di interessanti citazioni e riferimenti biografici e culturali, solitamente si sondano lungo un filo logico-introspettivo aderente alla trama del film, ci è stata anticipata dal dott. Gabriele Lodari.
Nella sua breve annotazione egli raccoglie, tra gli altri, i temi della memoria, del lutto e della vita e sottolinea come essi siano tra loro in inscindibile relazione. Mentre si ha cognizione di quanto il conformismo culturale dei nostri giorni li consideri tra loro divisi e appartenenti a momenti separati, nonostante l’evidenza dei contraccolpi cui tale modalità di vivere (non vivere) gli eventi spesso conduce. Poi egli ci parla del miracolo e della sorpresa, che sono senz’altro materia del sogno, ma soprattutto del sogno di ciascun attimo del giorno, che distoglie l’uomo dal tempo fermo della realtà, e lo conduce a sognare nel tempo insituabile della dimenticanza… che campeggia sullo sfondo di un oblio da cui le cose sembrano venire e ineluttabilmente ritornare.
Ciascuno, ciascuna cosa, è in relazione imprescindibile con l’oblio, si connota e si valorizza in relazione ad esso, senza il quale non ci sarebbe invenzione, vita, desiderio, pulsione. Lo sono i versi del poeta e la voce del cantore, il suono e le note del musicista. Lo sono i personaggi della narrazione (l’anziano custode del vecchio obitorio e l’amico necroforo) che sotterrano e dimenticano i defunti e i loro nomi, ma ricordano le loro storie e si arrovellano intorno ad esse, come se rispondessero inavvertitamente a un rituale ineludibile e indispensabile del procedere della vita, nel quale lo sguardo migra dal nome del defunto al racconto della sua esistenza.
E a sua volta ancora lo è l’anziano custode, anch’egli innominato come chiunque altro assorto nel disporsi esclusivamente all’altro, in ragione della sua stessa storia raccontata dal film allo spettatore, che lo vede non rinunciare mai, quasi come in una missione, e ingegnarsi in ogni modo nonostante le difficoltà resegli dall’età, pur di assicurare una sepoltura decorosa al corpo (o all’anima) della ragazza dimenticata o forse provvisoriamente nascosta dai sicari del regime in una cella del suo vecchio obitorio dismesso dalle autorità. Egli si dà il compito di proteggerla, preservandola dal trafugamento cui sarebbe stata per certo incorsa, e di accudirla, di offrile quello che ‘la grazia’ dei vivi dovrebbe riservare ai defunti, non per dovere, ma per celebrare l’imprescindibile adiacenza che lega gli uni agli altri attraverso la preservazione della memoria.
Le vite non possono essere abbandonate, dimenticate. I morti non si possono cancellare. Gli uomini non possono morire togliendo negli altri la consapevolezza della loro morte, poiché gli uomini non muoiono. E i vivi, testimoni della loro memoria, non possono prescindere da essa.
Viceversa l’uomo che in visita al vecchio cimitero chiede ragguagli all’anziano custode per raggiungere la stessa tomba che ogni volta non sa rintracciare, ha cancellato anche gli indizi del passato trascorso in prigione, il cui ricordo non gli è sostenibile, macchiato dalla riprovevole connivenza con gli assassinii che ivi si compivano da parte del regime, che lo vedeva depredare assieme alle guardie i corpi degli uccisi prima di perpetrarne con la calce, in loro vece, la cancellazione; un vuoto praticato e depositato in un passato, spaventoso, che dice quanto la memoria non sia indifferente e non sia rimovibile, non senza conseguenze disarmanti.
Ne è altrimenti testimone, nella mutuata opposta condizione, l’anziana signora che non vuole dimenticare e che ogni giorno percorre il tragitto dalla sua casa all’obitorio, nell’instancabile disperata attesa, divenuta una sorta di incessante preghiera, di ritrovare la giovane figlia sparita un giorno e che nessun giorno più le restituisce.
I morti si contano uno dopo l’altro (giacché a ciascun numero corrisponde una vita), fino all’ultimo (fino al numero di mille), per costituire a uno a uno, nessuno escluso, l’umanità che ci ha preceduto, la nostra umanità. Una sensibilità, questa, che prende particolare rilievo e enfasi sul terribile palcoscenico di vite sottratte e trafugate, che è il truce teatro attorno cui si svolge il film.
Non è il nome di questo o di quell’uomo o di quella donna, ma la voce di tutti e mille a reclamare il loro ascolto. Ascolto che indurrà alla fine l’anziana donna a accogliere nel sentimento verso la figlia anche la compassione per la ragazza sconosciuta, e a celebrare insieme la loro memoria, concedendo i documenti anagrafici della figlia al vecchio custode, in modo che egli possa fornire una (finta) identificazione, col nome di lei, alla ragazza che ora ha nascosto in un’altra cella, e permettendo così di procedere alla sua (loro) cerimonia funebre e sepoltura. Corpi e nomi si mischiano per conferire in terra, con la silenziosa e struggente solidarietà di tutti, la pace alla morte di tutti. Non è più il nome e il corpo di qualcuno, una volta morto, che conserva il senso di ciò che fu quel nome e quel corpo; ma in quanto morto, il nome è nome di ciascuno, e il corpo è quello di ciascun corpo. Nulla della realtà precedente permane come tale, bensì ciò che parrebbe trattenuto si rilascia e ogni conformità si dissolve.
La giovane donna è bellissima, nonostante il suo corpo e il suo volto siano straziati dalle ferite e dalle percosse; esso però, curato nascostamente dal vecchio, rinasce e ritorna al suo splendore: egli la sveste, deterge le ferite e le lava le membra fino a sembrare, nella delicata finzione del film, di tornare alla normalità inviolata precedente al massacro, propria del corpo di una giovane viva e dormiente. E come tale ella sembra muoversi assecondando passivamente il minimo tocco che riceve, come la carezza che l’anziana madre, invitata dal vecchio a visitarla, le rivolge per richiamare a sé il suo volto con la dolcezza sommessa di una madre verso la propria figlia, e al cui gesto ella sembra rispondere rivolgendosi a lei completamente. Un’intensità di immagini che solo le immagini possono raccontare. E il contrasto tra lo splendore, suggello di incontenibile vitalità, della ragazza e l’orrore inflittole da un regime corrotto e infame, che l’ha giustiziata relegandone il corpo nei turpi e desueti anfratti di un obitorio abbandonato, accresce l’angoscia per tale profanazione all’incommensurabile disperazione, qualora si colga che tale dissapore sia provocato solo già dalla vista di un corpo inanimato. Quanta, quanta vita altra fu violata, tolta, cancellata? sottratta a quel corpo che sommessamente e umile sembra ora ascoltarne eternamente l’eco?
Egli denuda quel corpo, di vita e non vita, senza che nel film lo si veda, quindi come non sia lui a farlo, e così anche quando successivamente lo lava, sembra che lo faccia come se non lo toccasse. La relazione che egli ha con il corpo della giovane è già nella dimensione della memoria, della poesia, del sogno… della preghiera. Così quel corpo tornato alla bellezza originaria non si contamina più, resta giovane e integro al passare dei giorni cadenzati dal bagno che egli ogni sera fa al rientro a casa. E quando torna in obitorio a trovarla, attendendo che le pratiche procedano e che gli impedimenti al funerale si risolvano, ha l’intrattenibile tenerezza di abbellirlo con un piccolissimo orecchino a forma di balenottero, che la sua incessante attenzione gli fa scorgere a terra, lungo i lugubri corridoi dell’obitorio, ridotto a desolante fatiscenza dalle scorrerie che vi si compiono nelle notti in cui i corpi dei desaparecido vengono trascinati fino alle celle, per essere fatti, successivamente, barbaramente scomparire.
L’attenzione e la dedizione del vecchio non sono riducibili. Egli ha una priorità irrinunciabile a fronte della quale mette a disposizione tutto il suo tempo, ingegno, astuzia e tutte le sue forze, senza risparmiarsi mai. Come se la volontà a agire fosse mossa da un imprescindibile istinto. Lo spettatore lo segue comprendendo passo-passo quello che sta per accadere o che egli farà accadere, poiché egli non parla e non spiega, ma è costantemente preso nell’agire secondo il compito che egli vuole portare a termine. E lo spettatore è a sua volta catturato senza esitazioni dal perseguimento di questo compito, poiché la sua portata, vuoi per l’ambito narrativo del film, vuoi per l’abilità della regia, assurge alle massime levature dell’animo umano, astraendo lo spettatore stesso dal conformismo in cui tutti i giorni si è abituato a stare.
Oltre a convincere l’anziana madre a rinunciare al certificato di nascita della figlia e a falsificare lui stesso un certificato di morte sottratto dai labirintici archivi nei sotterranei, si farà aiutare dall’amico per sottrarre il corpo della ragazza dall’obitorio e quindi imbroglierà il grottesco funzionario addetto al rilascio dell’autorizzatone alla sepoltura, ubicato col suo ufficio nel nuovo cimitero diversi piani sotto terra…, al fine di ottenerla (anch’egli con paradossali perdite di memoria, che gli fanno sistematicamente dimenticare le cose da fare, nonostante se le appunti, ciascuna con una apposita sveglia per ricordarla). Stamperà poi un finto necrologio (anche se poi le copie che poggerà ai suoi piedi nell’affiggerle gli saranno portate via e disperse dal vento, nel vento) e avrà la meglio sull’azienda funebre per organizzare in economia la bara e il funerale, destinando come luogo speciale di sepoltura un terreno appartato, una sorta di radura del vecchio cimitero, in qualche modo divenuto negli anni di sua proprietà, proprio sotto un albero maestoso.
In tutto ciò egli è sempre nell’azione, anche se l’azione (apparentemente) non sempre riesce (come nel caso delle affissioni): prevale l’essere costantemente e inconsapevolmente in atto, rinnovandosi in ciascuna azione. Questo non permette, nonostante le eventuali intenzioni, la predeterminazione dell’atto stesso, poiché l’effetto autentico, imprevedibile, è esclusivamente contestuale all’atto dell’azione stessa. Così il vecchio custode si trova costantemente nella posizione di ascolto dell’evento e a interagire con esso, e quindi anche di attesa, come intuisca che una interlocuzione sia in qualche modo in corso, giacché la sua stessa solitudine è una relazione in atto, come avverrà nella meravigliosa discesa al mare…
Compiuta la sepoltura, egli si reca sulla spiaggia dove sa che si era arenato un gruppo di balene. E guarda il mare. Sembra attendere qualcosa, come sapesse che qualcosa debba accadere, finché ciò avviene: all’improvviso accompagnata da una ‘fuga’ trionfale si erge stupendamente dall’acqua con un incredibile piroetta una balena, rimasta in prossimità delle compagne morte sulla spiaggia. Un solo trionfo musicale, un solo tuffo finale, con cui termina il film, è quanto basta al protagonista per ritrovare nel gesto di quella balena, nell’ascolto del suo canto, la pace e il passo della vita in atto, la certezza che essa che si rivela al mondo non senza il mare aperto, non senza la terra dell’oblio… e per così smarrirsi nell’universalità di tale verità.
Un pensiero, quello delle balene in agonia, menzionate giornalmente dalla cronaca dei media, che è in lui latente durante l’intera narrazione, il cui verso ora echeggia nell’aria del giorno o il cui nuoto ora attraversa il cielo, come muovesse nel mare immenso e solenne della memoria, in cui ciascuno è immerso nella vita, al di sopra degli abissi dell’oblio. Un pensiero che pur se in secondo piano, sposterà infine l’attenzione dall’epilogo allo slancio aperto nel finale del film.
Nella trama si sviluppano, tra situazioni diverse talvolta paradossali o grottesche fino al sorriso, che dissipano ipotesi di una costruzione finalistica della sceneggiatura, altri aspetti dell’oblio, alcuni già qui menzionati, che attengono alla singolarità dei vari personaggi. Si rivelano così altri versi, altre versioni di un oblio che riguarda tanti istanti e aspetti della vita. Sotto questo profilo il film, senza volerlo, attraverso ogni immagine, frase e situazione, si presenta, in un mondo in cui tutti con varie declinazioni dimenticano, come un quadro, come una sinfonia dell’oblio, che è sinfonia della vita. Che qui si acuisce con vicende estreme di dittature e prevaricazioni, in cui l’oblio violento entra prepotentemente a violare e scompaginare anche la logica per quanto ammissibile della morte naturale o accidentale, annullando la vita a zero, fino a cancellarne la memoria. Provocando, con preponderante suggestione nello spettatore, la questione irrisolta del rapporto violento o mal vissuto, inficiante o conflittuale che l’uomo spesso stabilisce in vita nei confronti della memoria.
Riguardo alla quale, però, un vecchio custode dismesso dalla funzione e maltrattato, e nonostante ciò irriducibile guardiano di un cimitero dimenticato, con la sua storia ci fa volgere lo sguardo sulla necessità imprescindibile, che potrebbe chiamarsi ‘etica’, di preservare non tanto la vita, al cui termine nessuno può opporsi, quanto la memoria cui ciascuno può adoperarsi.