Seminario del 20.3.2008
Quando incontriamo un nostro simile non incontriamo assolutamente un mobile, cioè non incontriamo una semplice cosa. Non soltanto dobbiamo intendere, però, tale asserto nel senso che incontriamo un qualcosa di più rispetto a una cosa. Quando incontriamo qualcuno non siamo per nulla nel mondo delle cose. Al massimo, possiamo dire che si tratta della convergenza di due scene; dunque, due corpi e due scene, ma due corpi e due scene i cui limiti si rivelano precari e in balia di un nuovo discorso che improvvisamente ha fatto irruzione sulla scena dell’incontro. Due corpi e due scene che immediatamente non sono più tali. Non incontriamo una cosa, una figura completa, un involucro di carne, più la parola o l’espressione che la anima.
Si può dire che ad ogni incontro il dualismo (corpo e anima o psiche) su cui ci sosteniamo abitualmente nel nostro discorso è messo a dura prova. Non incontriamo qualcuno che vuole significare, con una chiara domanda rispetto alla quale potremmo facilmente inventare una risposta adeguata. Colui che incontriamo, anzitutto, porta con sé un nuovo mondo simbolico, e dobbiamo intendere tale espressione nel senso che colui che incontriamo, ciascuna volta irrompe con un mondo nel quale inevitabilmente siamo noi stessi coinvolti, quasi fosse l’unico mondo possibile anche per noi, determinando ora una nuova condizione rispetto alla quale siamo costretti, in modo più o meno evidente, a rinnovare noi stessi. Reciprocamente, il simile che incontro riproduce il mondo in cui lo incontro, imbastisce questo mondo inedito nel quale io stesso sono immediatamente trascinato.
E’ pur vero che, solitamente, non è neppure un mondo del tutto estraneo a quello in cui mi sto muovendo, dal momento che con il simile posso almeno comunicare. Come ci comportiamo, infatti, all’occasione di un incontro? Ci scambiamo alcuni messaggi più o meno standardizzati e, immediatamente, a questi messaggi (piuttosto che al nostro mondo simbolico, ora barcollante; ovvero a quello dei detti inespressi che pure traspaiono con la nostra semplice presenza) affidiamo il compito di gestire la prova che ogni incontro parrebbe assegnarci. Lasciamo che questi messaggi si librino nello spazio del nostro incontro e deleghiamo ad essi il compito di proseguire nell’incontro che può iniziare talvolta con molte difficoltà e non con i migliori auspici, come si suol dire. Questa delega all’Altro, alla parola, è il procedimento che ci salva dall’irruzione dell’equivoco o dall’attenzione eccessiva alla menzogna che le frasi che ci stiamo scambiando fatalmente veicolano. Affidiamo ai nostri messaggi il compito di esprimere, equivocando e mentendo, l’indicibile della nostra sensazione d’imbarazzo che montava intorno a ciascuno dei due nel momento dell’incontro. Questo imbarazzo, che è l’imbarazzo relativo al crollo del nostro discorso personale, se non trova espressione e conseguente cancellazione nella parola diplomatica, convenzionale e mentitrice, sembra convenire di per sé, fino a creare quasi sempre un’incondizionata convergenza intorno a una parafrasi possibile dell’incontro. Il silenzio, l’imbarazzo, l’irruzione dell’emozione che ogni incontro più o meno intensamente produce sono un effetto proprio del cedimento del discorso nella frastica, del crollo dell’opposizione o, radicalmente, sono ciò che rimane nel momento in cui avvertiamo la menzogna del discorso in cui siamo accolti al momento dell’incontro, la menzogna del dualismo e di ogni rappresentazione dell’Altro. Stiamo ora affidando ai nostri messaggi il compito di alleviare nell’ossimoro quelle emozioni, con annessa difficoltà di padronanza, che la polarità esasperata e il dualismo del discorso in cui eravamo alloggiati necessariamente manifestava. Ma, se non persistiamo nell’errore di opporre la forza della nostra rappresentazione, ciascun incontro può comportare necessariamente questa trasformazione del discorso duale nel due, nella cifra della parola.
Il sembiante lascia trasparire le parole dette, volgendole al nuovo dire. Le parole dette “traspaiono”, si lasciano percepire nella sembianza e occorre che si volgano all’Altro. Passano attraverso il sembiante. Ricondotte nell’attualità della presenza tramite il sembiante, sono rivolte già all’Altro dire.
Cosa rimane di ciò che è stato detto? Non è tanto il senso, ovviamente, saremmo nel campo della tele-visione, che pure è una dimensione esistente: lo dimostra appunto l’esistenza del tubo catodico. Ci è dato esperire la sembianza anche dal video, ovviamente, ma l’accentuazione volutamente accordata alla rappresentazione, cioè al senso, a sfavore dell’oggetto della parola, ne erode drasticamente l’efficacia pragmatica. La televisione manca di pragma, manca la poesia che prima di ogni cosa è taglio nella rappresentazione. Soltanto la presenza del sembiante attualizza, dissolvendolo, il detto.
Quello che interessa in analisi è che nella dimensione di questo dire, nella sembianza, c’è il possibile rinvio al futuro, vale a dire che è presente una dimensione del tempo che non è semplicemente lineare. Il futuro della traccia (nella memoria, non nel ricordo) concerne la materialità della parola e non il senso che resta ancorato alla visione. Nella visione posso misurare il tempo nella sua linearità, che è finzione e menzogna. La traccia è fuori dal tempo, nella simultaneità, e consente un nuovo ordine del tempo. Nella televisione è semplicemente cancellata la traccia della parola, ridotta a pura visione. La televisione è un serbatoio di ricordi che non riescono a riversarsi nella memoria. L’atto di parola può essere scritto come traccia, ma questa traccia si manifesta soltanto se la parola è cifra, qualità.
Ciascun corpo, nel suo rapportarsi con la scena, è modellato dalle funzioni del sembiante; specchio, sguardo e voce. Qual è il nesso fra il lavoro delle funzioni del sembiante e la traccia delle parole dette? Forse le parole dette si convertono nelle funzioni stesse del sembiante. Le parole dette sono lo scrigno dei ricordi che una volta aperto diventa, nella memoria, rimando infinito (specchio), barbaglio di gemme rare (sguardo) o carillon di musica argentina (voce). Le funzioni del sembiante sono originarie e sottraggono le parole al tempo lineare in cui sono confinate dal detto.
La società occidentale ha tolto alla differenza, che è della parola, l’ossimoro della vita e della morte, avendone fissato come opposti, irriducibili e assoluti i termini di cui si compone e perciò il discorso occidentale si presenta come il discorso della morte. Basti un solo richiamo all’oriente, che peraltro non si contrappone geograficamente all’occidente, almeno non solo. Nel buddismo zen, la morte risulta una semplice fase nel grande flusso (tao) delle trasformazioni del vivente e la vita stessa è soltanto un processo incessante di differenze; ne risulta una diversa accentuazione data alla morte, dal momento che non si oppone più come termine assoluto alla vita. Così, solitamente, sono gli uomini e meno le donne ad essere ossessionati al pensiero della morte, poiché soltanto nella frastica l’ossimoro si cristallizza e la parola (che è vita) non funziona rilanciandosi come differenza incessante da sé. Anche la psicosi è il sintomo del discorso occidentale, della sua chiusura con il sintomo inerente al discorso che imperversa. Nel discorso d’occidente, le funzioni del sembiante, specchio, sguardo e voce sono trasferite e intervengono apparentemente asservite, nella frastica, quando non riappaiono sconvolte nel discorso psicotico.
Anche la psicosi evidenzia questa dipendenza del discorso e della realtà (del corpo e della scena) dal sembiante e di quest’ultimo attesta per contrasto e in negativo le funzioni originarie facendo risaltare le conseguenze della sua privazione. Se il sembiante è inafferrabile, punto di sottrazione, distrazione, astrazione, non per questo la sua funzione è meno avvertibile, anche e soprattutto quando è stata negata.
Come fare a meno del sembiante? In un certo modo, il discorso psicotico rappresenta la risposta strategica a questa domanda. Trascurando che, una volta negato, il sembiante interviene e si ritorce in maniera esasperata accentuando per contrappasso qualcuna delle sue funzioni a scapito delle altre. I fenomeni elementari, allucinazioni visive e acustiche, come il delirio, esprimono una modalità acutizzata di intervento del sembiante alterando il confine (che peraltro non esiste come dato) fra il corpo e la scena.
L’oggetto nella parola è il sembiante. il discorso psicotico è privo di occasioni e di appuntamenti, se l’unica occasione è con il sembiante. E la traccia del sembiante indica come lo psicotico voglia dimorare nell’occasione, fino ad affondarvi, anziché incontrarla. In questo senso, possiamo convenire con Lacan che è lo psicotico stesso a farsi oggetto, cioè occasione. Meglio, diremo che il discorso psicotico si agita nella nostalgia e nel ricordo del sembiante, ne riproduce le funzioni, mimandole e parodiandole. Lo psicotico riesce in qualche modo a dimorare nel non-luogo del sembiante, ma ne riproduce soltanto, sul piano della rappresentazione drammatica, le rispettive funzioni di specchio, di sguardo e di voce. Al suo tentativo di renderla domestica e situabile, la voce, si ribella rivoltandosi contro come allucinazione. La voce senza eco, che materializza la nostalgia della voce, è il puro fenomeno elementare della voce, un elemento cioè deprivato dell’Altro, che s’impone contro il soggetto. In una divisione che rappresenta, sostituendola, la differenza originaria nella parola, il soggetto si oppone come prodotto alla voce. Voce senza eco, senza differenza o divisione, identica a sé. La voce, nella psicosi, evidenzia che il soggetto non è mai originario, ma è il frutto di un’opposizione predisposta.
Così avviene per lo specchio come impertinente e lo sguardo come straniante. Entrambe le funzioni deprivate dalla parola, per giungere fino al punto di non vedersi per nulla allo specchio o di essere travolto dallo sguardo. Ovvero comandato dalla voce. L’hybris, che è follia e virtù del sembiante, si tramuta ripresentandosi allora mascherata; degradandosi rispettivamente nell’aggressività, nella rivendicazione e nel passaggio all’azione. Così la follia del sembiante si ripresenta mascherata come parodia del discorso. In quanto tale, un discorso è già specchio, sguardo e voce in qualche modo contraffatti e isolati, resi domestici e privati del tempo. La follia del sembiante permane nel suo esilio dietro la parodia dei gesti.
Alterazione del confine fra il corpo e la scena: corpo inconsistente, per l’intervento parodistico della funzione di specchio; corpo in frammenti, per l’intervento esasperato e parodistico della funzione di sguardo; corpo incontrollabile per l’intervento esasperato della funzione voce. Anche la temporalità è in qualche modo alterata. Assenza di sembiante significa infatti espunzione del tempo e dominio del tempo lineare o circolare.
Come ogni principio, anche il principio che dovrebbe orientare la cura in relazione al discorso psicotico non può che procedere dall’intervallo. Il principio risiede nell’intervallo che è davvero originario, certamente più originario dei fatti a cui si appella non solo il discorso psicotico stesso, ma anche quello psichiatrico che ad esso parrebbe contrapporsi e che avrebbe l’ambizione di curarlo. La dimensione intellettuale, dell’Altro, è dunque imprescindibile. La preclusione, quale meccanismo in atto nello scatenamento psicotico, è piuttosto da intendere (come d’altra parte capitava con Lacan, e come è stato ampiamente trascurato da parte di coloro che, ahimé, si richiamano indegnamente al suo insegnamento) come abbandono dell’Altro, della dimensione intellettuale della parola, quale unica possibilità di reintegrare il sembiante con le sue funzioni, dissolvendone la rappresentazione che si presenta oltremodo accentuata tanto nel discorso psicotico quanto in quello psichiatrico.
Se nel sembiante traspaiono le cose dette è perché il sembiante è punto di simultaneità.
Dunque, il sembiante è il luogo della simultaneità. E’ ancora il sembiante ad ordinare le cose nel tempo (sintassi), a interrompere il discorso (frase) a introdurre la pragmatica. L’ente, che nel discorso d’occidente è ridotto al corpo nella frastica, a una cosa, in relazione al sembiante è oggetto unico, originario (assoluto) e fuori del tempo. E’ evento e ordinatore del tempo. Il sembiante è infatti l’oggetto nella parola.
Nessuno può vedere il sembiante, sarebbe come trasferirlo nella frastica. Soltanto nel discorso un oggetto si può toccare, vedere, e risulta possibile affermare che un oggetto si trovi nel tal luogo o nel tal altro, nel tal tempo, nel tal periodo.
Si profila, il sembiante, stagliandosi dal transfinito del tempo e dello spazio. Il sembiante attraversa le maschere, attraversa i significanti, anzi è lui stesso a produrli come tali, come significanti o come nomi e, in essi e loro tramite, produce resistenza o rigetto. Ecco delinearsi la funzione dell’oggetto insituabile della parola. E’ il sembiante infine a realizzare la stessa visibilità delle cose e dello stesso linguaggio. In relazione con il punto vuoto (sembiante) il linguaggio acquisisce la sua concretezza, il suo ordine (sintassi) e il suo tempo d’arresto (la frase). Infine, la frase non è che una reazione al sembiante, come la metafora, la sintassi; ne è un evitamento o uno scarto (precisamente resistenza e rimozione). La psicosi, la “pazzia” è il modo retorico di parodiare, di imitare, di supplire alla follia del sembiante, quando il peso soffocante del discorso non consente di avvertirne la presenza lieve. I travestimenti e le maschere della pazzia, i passaggi all’azione, sono dunque la brutta copia di una follia (hybris) irraggiungibile che rappresenta la condizione più autentica, che è quella creativa della vita nella parola.
Nella simultaneità, all’origine dell’ordine spaziale e temporale, il sembiante allinea, allevia e alleva il discorso, dispone il discorso alla sua disposizione che è quella dell’incontro con l’oggetto originario e unico della parola. E’ per l’impossibilità di attingere questa condizione a-dimensionale che nella coppia per esempio, si gioca a fare i bambini, ci si annoia tremendamente molto spesso, si mimano i bambini lamentosi. Si diventa aggressivi per evitare l’odio strutturale che non è che l’espressione di questa incompiutezza che caratterizza la visibilità del linguaggio. L’odio non esprime che il fatto di questa impossibile afferrabilità del sembiante. Il linguaggio comincia ad esistere per il fatto che non si basta, non basta a se stesso e non basta a se stesso per via della funzione del sembiante.
INCLUDEPICTURE “http://www.dizionariodicifrematica.it/dizionario/pixel_trasparente.gif” \* MERGEFORMATINET Nella coppia, le difficoltà sono rappresentate dal vincolo delle parole dette che non sono rimosse dal sembiante. Le parole dette costituiscono un vincolo e il vincolo non è solo dato dal senso e dal significato univoco, senza equivoco, dal quale sono fissate. Il vincolo creato da peso delle parole dette, nella coppia, è all’origine dell’immobilità del rapporto e del muro che si frappone fra i due.
Il sembiante, l’oggetto nella parola, è singolare e triale. Triale: oggetto come causa, provocazione, nel pragma; oggetto di possessione nella frase; oggetto di sottrazione nella sintassi. Nella sintassi l’oggetto coincide con il corpo stesso quando l’Altro è fissato nell’ideale. Soltanto in relazione alla dipendenza dalla frase l’oggetto è opposto al soggetto. Una parola è, come nome, per opposizione al sembiante esposta all’equivoco. Una parola è, come significante, per evitamento del sembiante, esposta alla menzogna. Il sembiante, d’altra parte, soltanto per questo equivoco e per questa menzogna si manifesta, essendo impossibile da catturare.
Nella pragmatica il sembiante è causa, qui la scaturigine del tempo. Anche il tempo ha il suo principio nell’atto di parola. In questo tempo l’oggetto non è in perdita e non è perduto.
Il qualcosa in più della psicosi consisterebbe forse nell’esperienza che questo discorso fa della coincidenza? Follia del sembiante da un lato, pazzia del discorso psicotico, dall’altro. Parodia del sembiante? Forse non esattamente così.
Nella psicosi, il sembiante è il luogo della simultaneità che si degrada riapparendo mascherata nella credenza della coincidenza? E l’esperienza della coincidenza può essere considerata semplicemente come una caricatura dell’esperienza della simultaneità? L’esperienza del kairos, del miracolo o dell’incontro non ci rende in fondo un po’ tutti molto affini agli psicotici? Intorno all’esperienza della coincidenza non sembra possibile aggiungere nulla, ma anche rispetto a quella dell’incontro risulta difficile aggiungere granché. Proviamo ad affrontare la questione rimuovendo il nostro punto di vista, proviamo cioè a farlo esaminando le vicende come potrebbero svolgersi nell’Altro. Che ne è dell’Altro nei due casi; nel sembiante e nel discorso psicotico?
Nell’esperienza del setting è all’analista che è affidato il compito di pilotare l’analizzante nella navigazione, nel cielo della parola. Ma come descrivere ciò che avviene?
L’analizzante entra nello studio ed eccolo quasi scortato dal discorso che gli gravita intorno, il discorso pesante di cui si diceva all’inizio, che non è che l’effetto di un Altro rappresentato. L’Altro rappresentato è reso evidente dagli enunciati che da Esso si separano irrimediabilmente, e il tentativo di dissolvere la scena impregnata da questo discorso è affidato almeno all’inizio alle parole convenzionali, insomma ai convenevoli. L’Altro si staglia pesante o addirittura mortifero, ed è proprio la scena relativa a quel discorso che mantiene divisi il significante dal significato, il corpo staccato dalla scena stessa, le parole dalle cose. Tutto pesa, già dato e irrimediabile. Questa scena è quella che accompagna quotidianamente l’analizzante, e che talvolta (almeno nei casi più gravi o ritenuti tali per la nosografia psichiatrica) giunge fino al punto di prendere la parola, di significare mortalmente contro di lui, voci che lo assediano, sguardi che lo controllano. Questi casi esasperati (ma non estremi) indicano come la scena abituale è anzitutto e soltanto rappresentazione dell’Altro, poiché è dalla scena del mondo che interpellano quelle voci o che proviene quello sguardo. La psicosi indica come questo valga (cioè come soltanto la “realtà” del discorso blocchi la separazione fra il corpo e la scena) per ognuno, psicotico o meno, di noi, anche se la scena riesce comunemente a mascherare la sua natura discorsiva, mostrandosi con le credenziali della realtà circostante, e non lascia “normalmente” trasparire la sostanza di cui è intessuta: cioè, mero significato. D’altra parte, sia nel discorso comune, come in quello filosofico ed epistemologico, l’assunto di fondo è sempre quello che le cose, se non giungono a tanto, cioè se non guardano e parlano, almeno significano. Nella psicosi ci sarebbe comunque un ulteriore passo poiché lo sguardo è fatto vedere e la voce è fatta parlare. La funzione di Altro è dunque (normalmente) separata dal sembiante. E’ per la funzione di Altro che colui che vede può separarsi dallo sguardo, colui che ode, dalla voce. Che colui che vede non è annichilito dallo sguardo e colui che ode distrutto dalla voce.
Come intendere l’operazione attivata dal discorso psicotico per cui la voce è fatta parlare, lo sguardo vedere? Si tratta dell’attribuzione di soggetto alla voce e allo sguardo, mentre voce e sguardo non sono che oggetti nella parola. Dobbiamo ulteriormente interrogare questo soggetto, per intendere forse che si costituisce in assenza di sembiante (in assenza del punto vuoto) come punto sostanziale, punto di vista o punto rappresentato della voce. Dovremmo pertanto riconoscere e poi ribadire (e ancora una volta, contro il lacanismo imperante che starnazza intorno alla produzione soggettiva come fosse la terapia per eminenza) che in assenza di soggetto nessun fenomeno elementare è possibile e nessuna significazione è attribuibile all’Altro. I fenomeni elementari si rivolgono contro il soggetto e la loro esistenza presuppone quindi un soggetto in ascolto o sotto sguardo. Il soggetto è letteralmente un prodotto del discorso nevrotico e psicotico quanto l’allucinazione acustica e visiva cui si oppone. Nel discorso nevrotico e psicotico, essendo pregiudicata la mediazione dell’Altro, il soggetto non può separarsi dalla voce udita.
Lo sguardo non è una funzione dell’Altro, ma del sembiante, è funzione dell’oggetto nella parola; quando è attribuito all’Altro è perché il sembiante è assente e di conseguenza rimpiazzato indegnamente dal soggetto. D’altra parte, grumo di frustrazione , con questo epiteto Lacan aveva ribattezzato il soggetto.
Eppure, mi si obietterà, sono io a guardare e a udire, normalmente capita così. Sono io a percepire il mondo. Invero si dimentica che questo guardare e questo udire non sono funzioni originarie, suppongono i rivolgimenti di un addestramento nella logica della parola, e questa logica che è dunque dell’Altro, è governata dalle funzioni del sembiante; specchio, sguardo e voce. E’ per questi punti che posso introdurre un nome nel discorso, mettere un termine alla frase, punti vuoti di per sé, ma la cui qualifica, secondo le varie funzioni del sembiante, si specifica nel punto di sottrazione, distrazione, astrazione.
In questo punto pieno consisterebbe dunque il soggetto, un soggetto che parla, che vede e che ode, mentre non è che un effetto d’interruzione dovuto alla rappresentazione del sembiante o, come già notava Lacan, un mero significato.
Senza la sembianza della parola nessuna percezione è possibile. In verità, è la parola a consentirmi di distinguere e procedere, questo è lo specchio, di vedere, questo è lo sguardo; la parola a consentirmi di udire, e questa è la voce.
Nella psicosi la parodia è direttamente del sembiante, mentre nella nevrosi il tentativo è piuttosto quello di parodiare l’Altro.
Nessuno può stabilire dove dimori il sembiante se è impossibile da afferrare, rappresentare, localizzare. Senza la domanda, senza l’Altro, il sembiante dimora ovunque e ciascun evento può divenire coincidente con ciascun altro, come avviene realmente per il discorso psicotico. E’ la domanda, la parola rivolta all’oggetto, che, nella sua articolazione situa il sembiante nel punto vuoto e il localizzabile, in-temporale. Questa domanda rivolta all’oggetto attiva la funzione di rimozione, di resistenza e la funzione vuota, che consentono al sembiante di apparire in quanto simultaneo. Simultaneo il sembiante nella parola. Coincidente il segno nella rappresentazione dell’Altro. Anche il tempo del sembiante non è dato, ma il sembiante appare come simultaneità nella parola. Il discorso psicotico tenta le sue incursioni nell’Altro. Vorrebbe afferrare e assoggettare il sembiante (il tentativo è appunto quello di farlo diventare soggetto).
Ma un evento coincidente, cosa significa? L’appiattimento nella rappresentazione dell’Altro rende gli eventi coincidenti, cioè legati all’anello della necessità inesorabile. Se per noi la coincidenza non precede la simultaneità del sembiante, è giusto rassicurarsi asserendo che ne costituirebbe semplicemente una degradazione momentanea? La nostra epoca e il secolo scorso, con i campi di sterminio e la paranoia collettiva, non sembrano indicare che la coincidenza può prendere il sopravvento, in modo pressoché totale, sulla simultaneità del sembiante? Tanto da informare il mondo e determinare il turbinio della storia degli eventi collettivi, dissolvendo il sembiante e la sua memoria? In alcune circostanze l’appiattimento del mondo nella coincidenza del discorso psicotico occorre ammettere che ha una forza inesorabile e travolgente al punto da potersi erigere a ideale collettivo. Sono i tempi in cui l’essere umano diviene una sorta di robot che obbedisce unicamente a un Altro idealizzato. Queste terrificanti evenienze indicano abbastanza chiaramente come il mondo non è mai dato e non riposa fuori di noi come una sfera delle armonie prestabilite.
D’altra parte, poiché ciascuno di noi vive con un piede nella frastica, ci è impossibile uscire del tutto dalla coincidenza. Il mondo non può che presentarsi sotto l’aspetto superstizioso, come un mondo di segni, almeno all’origine (che non è una vera origine, ma un inizio nel tempo lineare della frastica). Noi affioriamo dalla coincidenza. Il mondo con i suoi eventi necessariamente ordinati si svolge così nella frastica. Il concetto è il tempo della cosa. Il mondo può anche diventare un teatro infernale, identificato con la frastica. Questo è il discorso psicotico. L’esterno che si scambia con l’interno, il concetto che s’impone sul mondo istituendovi le sue leggi necessarie. Queste leggi comprendono come loro effetto anche la coincidenza, come le voci e lo sguardo subito. Il soggetto fagocita il mondo o il mondo si parcellizza nel corpo proprio.
Ma può allora considerarsi, la coincidenza, una mera rappresentazione della simultaneità? C’è piuttosto un’accentuazione, una percezione esasperata del sembiante fino ad affondarvi; una temporalità sconnessa, come una burrasca, nella quale a tratti riaffiora nella sua esasperata nitidezza, il sembiante. Fino all’angoscia e alla cancellazione del tempo lineare. Da un lato, incombe la temporalità irreversibile e sovrana del discorso mentre, dall’altro, percepito più come una minaccia greve d’angoscia che come sollievo e apertura, il sembiante sembra a gran voce reclamare le sue pretese d’infinito. Se la simultaneità non è vissuta in modo originario, gli effetti sono in qualche maniera rovesciati; l’assenza di simultaneità rimarca soltanto la tirannia del discorso.
Ma è dunque la tirannia del discorso che si realizza come coincidenza? E la coincidenza psicotica è, oppure no, un’illusione? La coincidenza è una simultaneità deprivata della differenza, ma noi chiamiamo piuttosto sincronia il luogo di tale evento. La sincronia suppone un tempo oggettivo comune agli eventi o agli oggetti in relazione fra loro, mentre la simultaneità suppone piuttosto una sincronia di ordine logico o simbolico indipendente dal luogo della relazione che è messo addirittura in questione. La simultaneità non ha bisogno di considerare un tempo oggettivo comune e neppure un luogo oggettivo determinato. In definitiva, la simultaneità non ha bisogno di pensare ad alcuna coincidenza fra due o più eventi, sussistenti come eventi, prima di quello che rimane il solo ed unico evento decisivo, cioè, l’incontro con il sembiante. Quello di Einstein, resta un tentativo in tale direzione. Benché si limiti a mostrare che la simultaneità non è assoluta, ma dipende dal sistema di riferimento o di osservazione, Einstein, quando parlava di simultaneità, proprio perché la faceva dipendere dal sistema di riferimento (dal concetto, inteso come originario), la intendeva ancora con riferimento alla sincronia, quindi ancora in opposizione all’Altro. Einstein era dunque ancora vincolato alla concezione di un tempo e uno spazio dipendenti dal concetto, sia pure relativi, e connessi nello spazio tempo. L’evento di cui ci occupiamo in psicoanalisi è altra cosa.
INCLUDEPICTURE “http://www.dizionariodicifrematica.it/dizionario/pixel_trasparente.gif” \* MERGEFORMATINET Se la relazione con il sembiante è disturbata, il concetto tende a prevalere sulla pragmatica e allora cominciano le difficoltà. La relazione con il sembiante è all’origine degli incontri, delle occasioni per la nostra vita e delle nostre soddisfazioni. Il concetto è operativo, ma ad agire è la parola, non il concetto. Efficace è il rapporto con il sembiante, non con l’oggetto di sottrazione soltanto. Ancor più, nella psicosi l’oggetto è sentito e certificato come perduto o come una minaccia inesorabile.
Si dovrebbe abbandonare la certezza ideologica tutta occidentale degli opposti; vita-morte, bene-male, negativo-positivo, forte-debole, dentro-fuori. Si dovrebbe seguitare a volare nella leggera inconsistenza della verità, di cui la certezza psicotica è soltanto una rappresentazione. Giacché la verità è simile a un battito d’ali che non può non includere la propria negazione. Come l’aria che fende, essa è insieme ostacolo e sostegno al volo: è infatti ossimoro. Non è altro che il due, la verità. L’essere umano è il due. L’essere umano non è che l’ironia. La verità lascia presto cadere ogni riferimento al mondo della rappresentazione per inseguire soltanto se stessa.
Rap-presentazione vale: riduzione al presente, appiattimento, soppressione della memoria. Sono i tratti caratteristici che al delirio conferiscono la sua peculiarità. Anche se già il delirio appare talvolta come lo sforzo di ribellione all’appiattimento, avviando un racconto che procede soltanto debordando rispetto alla memoria, resta il fatto che il delirio è uno sforzo smisurato di cancellazione della memoria, nel tentativo di scalzarla dal potere che detiene di essere un ponte verso il futuro, per destinare questo potere al concetto. Il nome nel delirio funziona come ultimo, come nome del nome, e non consente alla significazione di proseguire nel suo cammino interminabile. Nella costruzione delirante qualsiasi nome può funzionare come limite di arresto della significazione e ingannevolmente legittimarla.
E’ pur vero che il delirio è presente nell’analisi, anzi si potrebbe azzardare che accompagna l’analizzante al termine di ciascuna seduta. Un effetto di deliro è reso evidente dall’euforia provocata dalla conversazione (ma altrettanto giustamente ciascuna seduta potrebbe terminare con un effetto di disforia) e questo ci indurrebbe a rivalutare il delirio, proprio perché in esso potremmo finalmente intravedere la resa del mondo al racconto che del mondo cosiddetto esterno ovunque ci portiamo. Resta che il delirio è come uno stendardo in cui un semplice schema (e non ancora la parola o il racconto) è in grado di raffigurare, racchiudere ed esaurire il mondo. Ma il mondo non è da capire o comprendere (questo fa appunto il delirio), il mondo non è da possedere, padroneggiare e innalzare come uno stendardo. Il mondo è da sperimentare, richiede una domanda inesauribile, richiede un viaggio interminabile senza punto di partenza e senza approdo. Il nostro viaggio richiede il tempo del racconto e questo tempo, del ritmo della parola, sussiste invece appiattito e raggelato nel delirio.
La presentificazione-rappresentazione del mondo è conseguente all’ipostasi del nome ed è l’operazione concomitante che definisce il delirio. Il nome reso insostituibile, la metafora impossibile e il mondo che diventa una metafora soltanto. Il mondo, oggetto di sguardo nel tentativo estremo di padronanza, di possederlo.
La regola della libera associazione ha valore in analisi, ma lo ha perché, in fondo, non è che una regola di vita. La psicoanalisi non può distinguersi dalla vita di tutti i giorni, ovvero, da come dovrebbe svolgersi la vita di ciascun giorno. Nella contingenza del fare e nella sospensione dei pensieri; delle preoccupazioni, delle previsioni, dei rincrescimenti, dei rimpianti e dei pentimenti. Tutte queste pre o post occupazioni hanno in comune una deformazione che concerne la temporalità del discorso, la quale si presenta con un appiattimento nel tempo lineare, sopprimendo il ritmo temporale della parola autentica e sbarrando il viaggio intellettuale.
E’ come se il tempo si appiattisse in una linea che dà risalto ai poli opposti del passato e del futuro soltanto, e al presente conferisse un tono mortifero. Il futuro rappresentato (ideale o preoccupazione, rispettivamente euforia e disforia) o il passato anch’esso rappresentato (rimpianto, rincrescimento, ancora euforia e disforia) sono le due copie di un originale ormai perduto, di un tempo che al presente riserva soltanto il senso della noia o dell’arrovellarsi. E’ questo il dominio della frastica. Avviene, cioè, che il sembiante si riduca all’esercizio di una sola funzione, che la funzione di resistenza prenda il sopravvento su quella di rimozione.
Ricordiamo la nostra formichina sul nastro di Mobius della parola. Finché rimane bloccata sul nastro di partenza del presente, i due bordi potranno valere per lei come rappresentazione del passato e del futuro dipendenti dall’ora. E’ un po’ l’interpretazione scolastica e dogmatica del tempo lineare agostiniano. Qualora si avviasse lungo il nastro del racconto, avrebbe l’opportunità di accorgersi che quel passato rappresentato (ricordo), ad opera del racconto può tramutarsi nella memoria e contenere in sé l’unica dimensione del futuro alla quale conviene affidarsi. E’ infatti nella memoria che il tempo lineare si scioglie nel racconto.
Se è a partire dal sembiante che si dipana la trama delle invenzioni del mondo, che si precisa la forma di ogni cosa; se la varietà del mondo è in questo continuo rinnovarsi della parola e se, ciascuna volta, il mondo ci è gradito per la sua leggerezza, per il suo svuotarsi piuttosto che per il suo consistere in qualche ente, se il sembiante è in questa follia che svuota il mondo, allora non ha molto senso insistere nel chiederci cosa sia ciascuna cosa. Il sembiante è sufficiente per vivere. E la ricerca del questo è un’illusione, benché la ricerca sia importante anche se sa che fallirà il questo cui si rivolge. Per conseguenza, non ha molto senso chiedersi cosa sia l’oggetto nella parola, il sembiante, dal momento che la sua essenzialità a noi è data proprio nel suo sottrarsi.
Tuttavia, noi ci chiediamo cosa sia lo specchio, cosa sia lo sguardo e cosa sia la voce. E’ l’instaurazione della tripartizione che ci avvia sulla strada del questo. Non possiamo dire cosa sia il sembiante poiché il sembiante non è una cosa, ma punto vuoto, evento, simultaneità, istanza della differenza. Al massimo possiamo dire cosa non è il sembiante. E’ la relazione con il sembiante, in effetti, a instaurare il non.
Possiamo cominciare, invece, a dire cosa sia una funzione, una relazione sia pure precaria che può instaurarsi sulla base del sembiante, possiamo cominciare a interrogarci sullo specchio, sullo sguardo e sulla voce, ma anche qui incontriamo subito delle limitazioni, dei vincoli che non ci consentono di circoscriverle ancora in un questo, in un che cosa.
Quale differenza fra discorso psicotico e fantasma materno? Nel discorso psicotico il tentativo vano è quello di rendere operativo il fantasma materno. Non resta che passare all’azione, drammatizzando il fantasma materno e Il discorso psicotico attua il dispiegamento di una vera e propria retorica del fantasma materno. Stabilito che il fantasma opera ma non agisce, la credenza nel fantasma non può che sfociare in un passare all’azione distruttivo, nel momento in cui percepisce che, rispetto agli altri fantasmi, il fantasma materno questo neppure sa fare: oltre che non agire, non opera.
Qualsiasi fantasma opera semplicemente nella peculiarità della sua relazione con l’oggetto, opera come fantasma sintattico (ho un corpo che è oggetto), frastico (ho un oggetto) e pragmatico (agisco per saperci fare con l’oggetto, ci provo). Ma quando è totalizzato (è creduto agire), il fantasma è immediatamente invischiato nella relazione con l’oggetto. E’ in presa diretta con l’oggetto identificato con il corpo materno. Il corpo della madre interviene allora brutalmente a impedire una separazione ideale; concretamente, il proprio corpo è, di volta in volta, scoperto in balia delle varie percezioni di potenza e disintegrazione. Vi è, nel fantasma materno, una totalizzazione (madre eguale morte) che ne impedisce l’operatività. Vi è un cortocircuito che si manifesta con una fusione con l’oggetto che impedisce all’idea il distacco necessario dall’oggetto, la condizione sufficiente per operare, la consapevolezza dell’operatività dell’idea.
Questo coinvolgimento è vissuto come rischio mortale. Nella fusione l’oggetto, che nella via normale si costituisce per separazione dal corpo materno, finisce per coincidere con il corpo materno, divenuto o tornato ad essere il corpo unico e necessario. Questo corpo è sentito dal discorso psicotico come un oggetto a rischio. Il discorso psicotico sa che il distacco dalla madre conferisce esistenza all’oggetto, che l’abbandono dal corpo materno è condizione necessaria per la temporalità dell’oggetto. Che la strategia operativa nei confronti dell’oggetto richiede il fantasma sintattico, frastico e pragmatico i quali si costituiscono nel percorso della separazione dal corpo materno. E incolpa la madre di questo scacco. Ambivalenza, oscillazione continua nel riferimento al corpo della madre, corpo prezioso e indispensabile, ma anche pernicioso e mortifero.
E’ per la funzione di specchio esercitata dal sembiante che un corpo di distingue anzitutto da quello della madre, e poi da quello di un simile (tu) nell’Altro. E’ per la funzione di sguardo esercitata dal sembiante che il corpo si separa come oggetto insieme agli altri corpi (io) nell’Altro. Ed è per la funzione di voce che un oggetto non dipende più dal discorso e si scopre altro (lui). Diverso, dunque, lo statuto acquisito dall’oggetto nei tre casi.
L’occidente ha inventato l’ipostasi dell’oggetto, ne ha fatto l’argomento di conversazione per eccellenza (preferibilmente fra uomini in un gioco che dovrebbe escludere le donne) e a una simile relazione con l’oggetto, codificata dalla ragione, ha assegnato il compito di far dipendere e regolare il suo rapporto con il simile, in tal modo operando un ribaltamento e reiterando una menzogna che l’ideologia giustifica e conferma pienamente (nei vari discorsi, epistemologia, luogo comune dominante). La ragione d’occidente è imputabile per questa illecita appropriazione con la quale le funzioni del sembiante sono state consegnate al soggetto. E quest’ultimo, proprio quando parrebbe vantarsi di una neutralità assoluta per quanto concerne il sesso, serve in realtà a mascherare doppiamente la menzogna sulla quale si sostiene, che è quella di essere un prodotto puro della ragione nel suo cammino universalizzante. Una ragione che, pur di non delegittimare se stessa, ritrova l’oggetto cosa come dato originario, in un’opposizione che pertanto giustifica ancor più un dualismo originario a questo punto irrefutabile. Ma il discorso maschile (della ragione) a cui ci stiamo riferendo è proprio quello che universalizza una condizione del discorso che in realtà dovrebbe essere limitata alla sola frastica.
La relazione originaria di ciascuno è con l’Altro. Il sembiante, l’oggetto originario che nell’Altro si profila, non è che evento, miracolo, e soltanto nella menzogna, nel tempo della padronanza (in verità supposta) da parte del concetto, è potuta tramutarsi in una cosa. In questo modo, dal sembiante, al simile, alla cosa, si è svolto il cammino rassegnato della ragione d’occidente nel suo processo d’archiviazione dell’Altro.
Per saperne qualcosa di più sull’oggetto, ovvero per saperci fare, noi dobbiamo risalire all’oggetto nella parola, semmai interrogare il rapporto con il nostro simile che a noi si presenta come sembiante, dunque oggetto nella parola. Anche qui, non c’è prima l’oggetto e poi la parola, o l’oggetto della parola, ma l’oggetto si specifica come idea dell’oggetto conformandosi alle tre funzioni attive del sembiante. Ne è una prova il risultato dell’indagine nel microcosmo dove, come è noto, l’ipostasi dell’oggetto come sostanza ha incontrato difficoltà insormontabili. L’elettrone sfugge alla presa del concetto per rivelarsi anch’esso modo del sembiante nella parola. Nessuna legge scientifica che non possa ricondursi all’originaria relazione di parola.
Il filosofo d’occidente ha dunque trattato il simile come la cosa morta? Ha immobilizzato il sembiante nella forma cristallizzata del simile, come morta cosa, facendolo, dunque, dipendere dal concetto, dalla frase e dalla sintassi, e ignorando la sua autonomia. Il simile per eccellenza, poi, la donna, immobilizzata anch’essa e trattata come “oggetto”, quantomeno assoggettandola al concetto.
Quale il rischio temuto di fronte alla parola della donna? Perché le donne non possono parlare o si ritiene che parlino troppo (la cosa non cambia)? La parola della donna si manifesta come metafora originaria, temuta perché conduce alla consapevolezza dell’inconsistenza del corpo, al corpo in quanto prodotto secondario. La donna è temuta perché la sua indifferenza, come pure la sua differenza apertamente manifestata, lascia trasparire la menzogna di un mondo sostanziale che potrebbe all’improvviso dissolversi e svelare la metafora originaria. Il mondo non è che una metafora e il corpo è una metafora del mondo, le cose provengono dal corpo metafora del mondo in quanto tali e non sono in alcun modo esistenti prima della funzione di sembianza che consente loro di manifestarsi.
Parlare in pubblico è assai diverso che assumere una posizione ossessiva (come pare sostenere Irigaray, che ne fa una prerogativa del modo maschile di comunicare), dal momento che l’ossessivo (identificabile, come abbiamo più volte notato, con il maschio) il pubblico se lo rappresenta e inoltre se ne tiene distante, poiché è asserragliato nella frase e convinto del valore della frase da cui è irretito. E l’ossessivo è sotto il dominio dello sguardo, tenta di ripararsi dallo sguardo, limitandosi ad osservare da una posizione arroccata, di evitamento, per meglio controllare l’oggetto.
L’ossessivo teme l’irruzione della menzogna che la frase necessariamente reca con sé, teme il contraccolpo dello sguardo, e del sintomo correlato, per vincere il quale occorre semplicemente lasciarsi andare a parlare (non affidare la propria esistenza di soggetto al monopolio di una frase) e lasciare così che le altre funzioni del sembiante (specchio e voce) intervengano con la loro armonia.
Il parlare basta a se stesso e non ha bisogno dell’adeguamento ad alcuna verità già definita cui far riferimento; al contrario, il parlare insegue l’etica come tono di un incontro, è l’incontro con il sembiante ciò che convince il pubblico, è il dispiegarsi della retorica (metafora, metonimia e catacresi) che rende sicuri di sé e sicuri del corpo che si sta offrendo all’uditorio.
Analogamente, possiamo trasferire nella clinica questa considerazione per notare come gli effetti di terapia nell’analisi non siano da ascrivere, secondo la concezione medicale del corpo, alla risoluzione o all’adeguamento di un presunto soggetto rispetto a una qualche realtà, rispetto al discorso di una natura maligna o benigna soggiacente cui rispondere; in qualche modo, gli effetti di terapia sono piuttosto interni al dire stesso e dipendono da una trasformazione del discorso. Gli effetti di terapia sono semplicemente la somma degli effetti di soddisfazione nella parola e l’essere umano si appaga raccontando. La vita è nel racconto. La parola si sviluppa piegandosi nella sembianza e questo è il solo farmaco che costituisce un principio d’immunità. Il discorso medicale si fonda sulla concezione ideologica del discorso come causa, non curandosi dell’unica causa effettiva che è il sembiante.