L’oggetto dell’arte e Dio


Seminario del 10.4.2008

Che cosa qualifica l’oggetto che definiamo artistico, la tela del pittore o in generale qualsiasi opera d’arte? E’ una discussione impegnativa e sconfinata. Soprattutto considerando i grandi mutamenti e la linea di frattura attraverso cui la creazione artistica si è incamminata nel secolo scorso. Da quando, cioè, quasi completamente sembra essersi sganciata dall’estetica tradizionale, ovvero dal richiamo alla natura con la sua bellezza presunta oggettiva e concreta, quale universo di riferimento di cui l’arte si porrebbe come tentativo di un’imitazione più o meno incompiuta. L’evoluzione talvolta paradossale e l’estrema oscillazione nelle forme e nelle proposte che hanno imperversato nell’ultimo secolo, ha reso ancor più controversa e infine inconciliabile una definizione dell’oggetto artistico. Come definire la bellezza e l’attrazione esercitata da un’opera d’arte, se manca il riferimento a un modello ideale di cui essa non è più leggibile come una copia, superiore o imperfetta che sia? Questa domanda attende una risposta che non può essere certamente conclusiva.

Ci possiamo limitare a qualche cenno storico, con l’ambizione dichiarata che forse il linguaggio della psicoanalisi (almeno quello da noi praticato) ci consente una prospettiva intelligente e non invasiva preservando, anzi quasi certamente esaltando le occasioni di astrazione e trascendenza dell’opera. E a proposito di prospettiva, occorre notare come l’arte del novecento si sia caratterizzata per un’inversione, che ne ha esaltato le potenzialità espressive e creative, proprio per la nuova collocazione del punto di prospettiva, non più esterno all’opera, ma che ha coinvolto la posizione dell’osservatore. Il punto di prospettiva trasferito, per così dire, nei limiti di campo dell’universo osservato, ha operato, come è noto, dall’interno una deflagrazione dei criteri geometrici e razionali che presiedevano alla raffigurazione del mondo inteso come un dato oggettivo e immutabile, per introdurvi una serie complessa e infinita di rimandi che ha sconvolto anche i canoni tradizionali della cosiddetta bellezza oggettiva.
Il dissolvimento della rappresentazione, sulla quale soltanto si sosteneva la partizione interno–esterno (creduta originaria anche in attinenza all’opera d’arte) ha coinvolto e trascinato persino la gamma inesauribile delle emozioni, imponendo un sentire più raffinato o almeno non più dipendente da un sentimento comune ampiamente condiviso, bensì evidenziato dallo stato d’animo “singolare” dell’autore, o meglio siglato dal simbolico, lasciando emergere la traccia di ciò che, nella latenza, era comunque sempre presente nell’avvicendarsi delle molteplici forme espressive dell’arte. In termini forse un po’ riassuntivi, è possibile affermare che l’opera d’arte nel corso dell’ultimo secolo si è manifestata sorprendentemente per quello che sempre è stata (e che le condizioni di forte dipendenza da un concetto di natura accolto universalmente come dato immutabile avevano sia pure parzialmente occultato) cioè, potentemente vincolata alla dimensione simbolica e intellettuale dell’uomo, anche e proprio nelle forme espressive cosiddette primitive o dei popoli altri presunti senza storia. Tanto più la concordanza fra la forma percepita dell’oggetto e la sua rappresentazione ad opera dell’artista, diventava problematica, quanto più acquistava rilievo (anche in modo paradossale o, direi, per sconfessione nell’astrattismo formale) la dimensione del racconto. Acquistava rilievo, nel novecento, il tempo della parola, che nell’opera d’arte autentica ha comunque sempre soverchiato la mera raffigurazione. A ben vedere, l’opera autentica è sempre esorbitata dal tempo storicizzato e lineare della rappresentazione e questo è il motivo del suo fascino rimasto fino a oggi immutato. Ma forse soltanto nel novecento acquistava, implicitamente, rilievo l’opera come caso di parola, e infine persino l’emozione come prodotto sgorgato da un sentire esclusivamente intellettuale.
Anche le tradizionali opposizioni (ideologiche e filosofiche) fra concreto, materiale, primitivo, da un lato, e astratto, ideale, moderno, dall’altro, come ogni altra partizione ideologicamente fondata su una concezione occidentale della storia e dell’uomo, si sono fortemente deteriorate per la tensione esercitata da un sentire più ampio e diffuso. Un nuovo incontro, la scoperta, variamente e più o meno consapevolmente compiuta dagli artisti del novecento, dell’arte africana o di paesi d’oltremare, ha consentito di rovesciare addirittura il criterio storico che sempre ha opposto il concreto all’astratto. Ecco avanzare il dubbio che il concreto non fosse storicamente originario rispetto all’astratto, anzi che l’astratto fosse la condizione assoluta e necessaria per l’emergenza e la creazione, non solo dell’opera d’arte in quanto tale, bensì della cosa intesa nel senso più vario, sia come prodotto della tecnica sia come sostrato naturale. E’ possibile rinvenire la traccia di una tale consapevolezza negli artisti più interessanti del novecento e, in particolare, in quello che parrebbe, intellettualmente, sovrastarli quasi tutti, cioè in Picasso. Cercheremo in alcuni suoi apoftegmi questa traccia.

“Ci sono pittori che dipingono il sole come una macchia gialla, ma ce ne sono altri che, grazie alla loro arte e intelligenza, trasformano una macchia gialla nel sole. Attraverso l’arte noi esprimiamo la nostra concezione di ciò che la natura non è”. Qui a me pare accennato questo svincolarsi teorico dalla concezione dell’opera d’arte come copia della natura, come semplice imitazione e rappresentazione, oltre alla conseguente inversione sopra accennata fra il concreto e l’astratto. In parte ciò è ribadito nel seguente aforisma: “la pittura è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a se stesso riguardo a ciò che ha visto. La scultura è l’arte dell’intelligenza”. Imprescindibile, pertanto, l’approccio intellettuale. Tanto più questo varrà per la pittura e ciascuna fra le arti, dal momento che: “la scultura è il commento migliore che un pittore può fare sulla pittura”.
Se molto è stato detto intorno all’arte non più intesa come semplice imitazione, forse occorre ancora portare alle estreme conseguenze tale consapevolezza, fino a un definitivo ribaltamento della questione generale dell’espressione artistica. Con un primo movimento che consiste nell’accorgersi che non si dà, e non può darsi in alcun modo, una risposta conclusiva alla domanda che cosa mai sia l’oggetto d’arte. Occorre che la domanda resti aperta, proprio perché l’arte ha a che fare con questa apertura. A questa apertura accenna proprio il richiamo di Picasso all’infanzia come a un’origine innocente e perduta, e a una concezione dell’arte che ora si rivolge all’infanzia dell’uomo nella riscoperta fra l’altro della scultura africana. “Tutti i bambini sono degli artisti nati; il difficile sta nel fatto di restarlo da grandi. Ho imparato a dipingere come HYPERLINK “http://it.wikiquote.org/wiki/Raffaello_Sanzio” \o “Raffaello Sanzio” Raffaello; adesso devo imparare a disegnare come un HYPERLINK “http://it.wikiquote.org/wiki/Bambino” \o “Bambino” bambino”. A una definizione dell’opera d’arte che la riporterebbe nell’algida sfera dell’ideale, con il rischio dell’imitazione, Picasso oppone una definizione ostinatamente pragmatica: “non ho mai reso la pittura un’opera d’arte. E’ solo ricerca”. Questa angolatura, che evoca prepotentemente l’artista quando è all’opera (umile, ma allo stesso tempo vigorosamente concentrato nel suo narcisismo), è in apparente contrasto con l’arcinota dichiarazione dell’artista: “io non cerco, trovo”. La ricerca in cui si muove Picasso, potremmo noi dire, è da intendere come viaggio, nella contingenza del fare, non come sforzo per conoscere o adesione alle correnti ufficiali. E la ritrosia, o l’atteggiamento quasi sdegnoso dell’artista, ce lo mostrano attento a schivare proprio la ragione (del critico) che pretenderebbe d’inquadrare l’opera in un canone scolastico prestabilito e, dunque, nell’aborrito discorso. E’ la stessa apparente incongruenza che si potrebbe segnalare nella vita dell’artista, misantropo nel suo studio (assorto, nella tensione di salvaguardare l’ispirazione del suo agire concreto, nel cielo dell’astrazione), e però tutt’altro che misogino nella vita. Potremmo allora affermare che il suo trovare è il frutto di un movimento di sospensione, di una ricerca che si alimenta di persistenti sospensioni. E’ indispensabile l’Altro, l’intervallo e la sospensione (quali caratteri propri al sembiante) affinché si possa incappare nella trovata.
Nella considerazione di Picasso che “l’arte è la menzogna che ci permette di conoscere la verità”, troviamo condensata, in un bellissimo ossimoro, l’assillo fondamentale che si agita dietro la creazione artistica. Fingo e dipingo, praticamente sinonimi, almeno per quanto riguarda la radice etimologica comune, alludono proprio al percorso dal discorso alla parola. Dalla menzogna della frase (la finzione della tela che si connette alla vanità della mera rappresentazione) alla parola, intesa come parola autentica nel suo presentarsi come scrittura dell’esperienza. E, inoltre, alla verità come meta che sfugge sempre, irraggiungibile, verso cui essa, la parola autentica, in atto, non cessa in ogni caso di protendere.
“I colori, come i lineamenti seguono le emozioni intellettuali” (Picasso), questa accortezza, che parrebbe limitarsi a indicare un precetto di bottega o di tecnica esoterica valido semmai per il solo pittore, non assume per noi un respiro intellettuale più ampio nel cortocircuito che propone fra colore ed emozione? I colori precedono o no le emozioni? Rispondiamo di sì, qualora per colore non intendiamo però il fenomeno percettivo fisicamente descrivibile, ma il colore come risvolto assoluto del sembiante. Nel sogno, è il colore a manifestare un’emozione silenziata che dunque lo precede, mentre nella vita di ciascun giorno accade piuttosto il contrario; in questo caso, è l’emozione a suggerire un colore ad essa adeguato. La contrapposizione (che dunque è quella tra la veglia e il sonno) si smorza se poniamo come primum la parola originaria che si evolve nel racconto sia del sogno che della veglia. Ciò che i pittori del novecento cominciano a intuire è che la dimensione intellettuale governa ciascun fenomeno connesso (oppure no) alla percezione. Se non solo il sogno, ma anche la stessa realtà, sono manovrati propriamente dall’Altro, avviene che la percezione se ne difenda soggiogandosi all’autorità della ragione. Ed ecco un buon presupposto per comprendere almeno in parte il soverchiare della ragione nel discorso d’occidente.
L’arte negra, maschere e teste scolpite dai popoli cosiddetti primitivi o senza storia, che Picasso può ammirare al Musée de l’homme e che da lui saranno poi accuratamente riprodotte e inoltre piallate e sfaccettate secondo il canone geometrico del cubismo, nel tentativo più o meno esplicito di privarle definitivamente proprio di ciò che all’origine, in realtà, non possedevano affatto, cioè della loro valenza di copia rispetto a un modello preesistente (mentre in queste maschere africane l’intenzione estetica dell’autore non è in questione, poiché il loro recondito significato riposa piuttosto nel dreamtime, cioè nel tempo del sogno e del mito), questa arte negra si affaccia agli occhi dell’artista occidentale come un ospite affascinante e sconosciuto proveniente da un mondo altro. Un mondo dell’Altro dove il sogno e il racconto che promanano dalle linee di tensione generate potentemente da quelle sculture, impongono una posizione di ascolto che sconvolge, quasi fisicamente, la percezione del tempo e dello spazio in cui correntemente l’oggetto è situato nel concetto dalla ragione d’occidente.
Qual è la storiella che ci hanno raccontato sui nostri antichi progenitori? E perché non avrebbe qualche valore di legittimità la versione della storia che vorrei piuttosto proporvi questa sera? Immaginiamo, dunque, di esser nati o per caso capitati nel neolitico, all’epoca di quella che a questo punto vi propongo come l’unica e autentica rivoluzione, o forse meglio controrivoluzione. Nella quale, bene o male che sia (forse più male che bene) si è cominciato ad inventare un al di là della parola, un mondo, una realtà presuntivamente esistente di per sé come sostrato, al cui confronto la prima, la parola davvero rivoluzionaria, è stata ridotta alla funzione di semplice inventario.

C’è stato un momento, nella storia vagamente precisabile, in cui la parola è stata ridotta al semplice ruolo della classificazione e dell’inventario, depauperata della sua funzione creativa che è stata data in custodia e poi ceduta alle cose intorno, per esempio, alla natura. E’ il momento in cui si stabilisce il dominio della rappresentazione sulla parola. Un momento in cui l’ordine delle parole nel discorso si è arrogato il privilegio di replicare un ordine supposto naturale già esistente, nominando le cose e poi ordinandole in un tempo e spazio anch’essi presunti già esistenti prima della parola stessa. Un momento in cui la parola è stata quindi destituita del suo potere che consisteva non solo nel plasmare, ma letteralmente nel far comparire gli oggetti, che cadevano (prede animali, pietre e cielo) attorno al nostro uomo del neolitico. Un momento in cui la parola ha cessato di fondare gli oggetti fisici, con un ribaltamento per cui è iniziata la propaganda, che gli oggetti fisici, presunti esistenti prima della parola, si replicassero soltanto nella parola verbale, o dipinta o cantata o recitata o mimata (una tendenza consolidata dalla mimesi platonica). La poiesis costitutiva ed istitutiva del mondo (raffigurata storicamente con il mito e con il rito dai nostri progenitori) da quel momento ha smarrito definitivamente la sua forza evocativa e costitutiva per ridursi alla funzione di replicare soltanto le cose di un mondo presunto già esistente. Questi sono solo alcuni cenni della storia che vorrei questa sera cercare di riscrivere per voi.
A ben vedere, il lavoro di piallatura di Picasso, come il gesto dell’artista di geometrizzare la figura secondo il dettame cubista, obbediscono in realtà allo stesso intento dell’autore negro sconosciuto che si affaccia per noi dal fondo della storia. Il gesto è anzitutto un gesto artistico, ovvero è quello di una mano intellettuale che non opera per nulla su un materiale inerte e già esistente da conformare a un ideale. La materia riposa e al massimo eccede rispetto alla parola. Sono proprio l’eccedenza e il pleonasmo (il pleonasmo come verità dell’eccedenza) che la rendono preziosa per noi. Non c’è, da una parte, un’eccedenza di natura inerte, e conseguente carenza simbolica, cui si opporrebbe l’astrazione di una cultura più alta o matura che godrebbe del privilegio di essere prossima a una verità estetica ideale.
Da qui in avanti, dire cosa sia l’arte risulta un’impresa impossibile. La scultura, quale combinazione fra il corpo e la scena, richiede la poiesis e le sue forme si evolvono soltanto sotto la direzione del racconto, mito, discorso o logos che sia. Possiamo inoltre aggiungere che la mano intellettuale dell’artista (neolitico o moderno) è sempre guidata da Dio, nel senso che è proprio l’impossibile rappresentazione, ovvero l’apertura infinita provocata semplicemente dall’esistenza di un punto vuoto, a schiudere lo spazio infinito dell’invenzione e del racconto. “Dio in realtà non è che un altro artista. Egli ha inventato la giraffa, l’elefante e il gatto. Non ha un vero stile: non fa altro che provare cose diverse”. Ed è ancora in questo senso che occorre leggere la dichiarazione (che altrimenti potrebbe apparire carica di presunzione) ancora dello stesso Picasso: “credo di sapere cosa si prova ad essere Dio” . La creazione dell’oggetto artistico sfugge sempre dalle mani dell’artista e non gli appartiene. Infine,“la vita imita l’arte molto di più di quanto l’arte non imiti la vita”. Ecco realizzato il ribaltamento efficace operato sul logos. La vera vita è arte, la vita non è altro che arte della parola e il resto è soltanto vacuo discorso.


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