L’amore e l’arte appesi al sembiante


Seminario del 17.4.2008

Accenniamo, questa sera, all’opera di un altro grande artista del novecento, Magritte. Un pittore annoverato nella corrente surrealista e quindi, secondo la tradizione, considerato più vicino all’ambiente della psicanalisi, benché su questo punto sarebbero necessarie molte precisazioni. Alcuni critici hanno voluto prendere le distanze da questo accostamento, distinguendo la sua opera, per esempio, da quella di Dalì o di Braque ove sembrano presenti in modo più esplicito l’inconscio e il sogno. Peraltro, nel fraintendimento di una concezione dell’inconscio inteso come personale e inscindibile dalla biografia del personaggio. E nel fraintendimento del sogno, inteso come ricettacolo di simboli al contempo soggettivi e universali. In ogni caso, biografia e soggettività in Magritte sono effettivamente assenti, laddove in Dalì principalmente, pur avvalendosi di simboli universali, il racconto veicola un messaggio ideologico sia pure non dichiarato e comunque quasi sempre autobiografico.
Occorre precisare che lo stesso Magritte si ribellava all’idea di essere catalogato in una scuola qualsiasi e non sopportava, specialmente, che a una corrente artistica si dovesse inevitabilmente accollare una missione di propaganda di contenuti politici o sociali esterni all’opera stessa, che dovrebbe piuttosto vivere nella sua esistenza singolare e originaria. Come l’oggetto artistico che essa raffigura, l’opera d’arte, con la sua sola, unica presenza produce tempo e racconto. E’ dunque causa e non effetto. Essa è sembiante: generando con la sua esistenza vuota e puntiforme il mondo circostante, è in grado di trasformarlo plasmandolo in una luce nuova. L’opera d’arte, ancorché non debba in alcun modo assoggettarsi al discorso, semmai dovrà essere in grado di suggerire un nuovo discorso. Ciò non toglie che lo stesso Magritte sia profondamente influenzato dal discorso dell’epoca in cui vive.

“Dipingere significa, per me, far vivere il mio pensiero” e “penso per immagini, non per romanzi o poesie” (1962).
Qui subito la prima obiezione: il sogno senza racconto non è che una caterva d’immagini che si sovrappongono l’una sull’altra in maniera scombinata e non serba più nulla di originario. Al massimo, si lascia contaminare dall’ideologia o dallo stupore, come avviene troppo spesso in Dalì. Originario è il racconto, la parola dell’Altro che suscita le immagini. Qualche critico ha colto ancora una grande vicinanza fra l’opera di Dalì e di Magritte riconoscendo nei loro quadri la presenza frequente dei gloriosi archetipi junghiani. Non cogliendo proprio il fatto che il sogno deprivato dal racconto non fa che ridursi appunto a un archetipo, che non è se non illusoriamente originario. L’archetipo è un’immagine meramente presa come un universale, un’immagine ontologizzata.
Il mio gradimento è rivolto piuttosto a Picasso, perché a me sembra che in Magritte, nonostante le apparenze e l’ostentazione palese di un recondito significato intellettuale, la retorica dell’inconscio non riesca, o riesca soltanto in parte, a dispiegarsi in racconto. Il racconto è asservito a una retorica dell’ontologia e l’ontologia finisce per informare anche l’inconscio. Potremmo in effetti definire l’opera di Magritte come un’ontologia del mistero. Nei suoi quadri troviamo che la rappresentazione è soltanto in apparenza oltrepassata: quasi sempre essa parrebbe deliberatamente negata, ma soltanto tramite un’altra rappresentazione che le si oppone. Avviene talora che la rappresentazione sia discussa deliberatamente come fondamento (pensiamo alla famosa pipa, cecì n’est pas une pipe) con un riferimento colto e forse pretestuoso all’opera di De Saussure, ma in termini concettuali, non riuscendo a porsi come spunto per alcun racconto e limitandosi pertanto all’enunciazione di un secondo concetto.
Nondimeno vi è nei quadri di Magritte una messa in questione della rappresentazione, realizzata sempre mediante l’uso del paradosso (nella notte oscura una casa illuminata, ma con un cielo diurno sopra il tetto, oppure dei cavalli e cavalieri in un bosco che però sono raffigurati sulla corteccia degli alberi, creando un trompe l’oeil, alla maniera di alcuni disegni di Eccher e via dicendo). Più che una profondità intellettuale, prerogativa del racconto, siamo ancora in presenza di un vasto repertorio di concetti, senza dubbio interessanti e tali da sovvertire il primato della rappresentazione, ma la solidità e le certezze della percezione non sono superate come avviene in Picasso e in artisti coevi. E’ un indice interessante il fatto che Magritte si mantenga figurativo; il primato è dunque dell’immagine rispetto al racconto.
E’ nota la resistenza prolungata o almeno la riservatezza del “tradizionalista” Freud nell’accogliere le novità delle opere dei surrealisti, ma ci si potrebbe chiedere se, in generale, non ne fosse proprio questa la nascosta ragione: per il privilegio da loro accordato all’immagine a scapito del racconto. Per Freud l’inconscio ha ben poco da spartire con la fissità dell’immaginario e anche il sogno non è abbordabile sul versante dello stupore o della suggestione provocata dall’immagine, quanto su quello del malinteso, prerogativa del racconto.

Si assiste, in Magritte, a un’esasperata accentuazione o almeno all’incremento della funzione di specchio, che quasi per interna propulsione si presenta come dualismo di opposti, con emergenza del contrario. La funzione di specchio è quella per cui l’immagine è assolutamente “altra” onde qualsiasi criterio d’identità si rivela una costruzione fittizia. Presentando dal di dietro una persona che, guardandosi allo specchio, appare raffigurata ancora di spalle, non con il volto, come dovrebbe essere, Magritte vorrebbe indurci a sospettare (ancor che inadeguata, certamente tale indicazione non è da poco) che l’immagine comunemente osservata non è speculare. Soltanto che egli trascina al paradosso quella medesima funzione rappresentandosi una “realtà” soltanto contraria a quella normale. Che cosa viene qui a mancare se non la funzione di Altro e, dunque, il racconto? In altre parole, almeno in apparenza, sono qui bloccate le due altre funzioni di sguardo e voce; quella di sguardo, che in qualche modo mi consente di rendere provvisoriamente stabile un principio d’identità e quella di voce che, per dirla così, mi consente di non affidarmi più di tanto a questa fantasia e, pertanto, di proseguire nel racconto.
Il mistero, nel pittore, acquista allora grande risalto e s’impone con il sentimento che invariabilmente l’accompagna: l’angoscia. Usurpando il posto dell’enigma. Il mistero è, pertanto, l’enigma rappresentato. La riflessione di Magritte si dipana lungamente, dibattendosi nella questione del mistero, ma qui trova nondimeno un punto di arresto e rinuncia: “la parola Dio non ha senso per me, ma io la restituisco al mistero e non al nulla”. Meglio sarebbe, obiettiamo, restituirla al nulla, purché vogliamo però interrogarci sull’essenza del nulla che, offrendosi come pleonasmo nel racconto, rende in effetti possibile quest’ultimo. E Dio, non è forse questo per noi? Il nulla della lampada dell’intelligenza. Magritte invece descrive, rappresenta il mistero, esiliandolo nel territorio chiuso e opaco sull’altro polo; quello che opponendosi soltanto al chiarore della ragione non riesce a sottrarsi al dualismo fissato, giorno e notte, rappresentazione dell’animale anfibologico. Senza crepuscolo. L’ossimoro non riesce a svilupparsi per rimandare all’Altro.

Altrettanto può dirsi per la definizione del caso (e della necessità) che troviamo espressa nel frammento n. 206. Magritte si spinge fino a intuire che il caso è per qualche verso figlio dell’ordine (e viceversa) e non ammette l’incoerenza e l’assurdo quali primitive proprietà del mondo. Però, s’incespica quando ne tenta una definizione: “quanto al caso, se il termine è giusto, la cosa che esso designa equivale a ciò che è designato dalla parola ‘ordine’. Si può dimostrare che il caso obbedisce a un certo ordine, che esso è l’ordine dell’ordine, che l’ordine è dovuto al caso”. Nessun cenno qui alla parola e all’oggetto nella parola (all’oggetto causa, il sembiante, cioè alla cosa quale sua manifestazione); questo gli avrebbe permesso di cogliere che sia il caso come la necessità (l’ordine) sono concetti e non sono per nulla originari, ma dipendono dalla parola. Se non siamo nella parola, sia il caso che la necessità si dissolvono poiché si svelano mutuamente dipendenti. Occorre l’invenzione del caso perché si possa instaurare la legge. Niente caso o necessità prima del racconto o della teoria. Il caso è sempre un caso di parola.

Ciascun genere narrativo attiva una particolare sensazione. Nulla si può certificare della sensazione estirpandola dal genere narrativo di cui essa risulta un effetto. Abbiamo già indicato una partizione fondamentale per quanto riguarda la differenza fra l’emozione e l’affetto. Il secondo si sviluppa nel campo ostruito, sbarrato, dalla frase, mentre la prima richiede l’apertura pragmatica dell’Altro, ossia l’attivazione della poesia. Nel campo degli affetti in generale si è stabilita una supplenza del sembiante, una sua rappresentazione. Ciascuna emozione è suscettibile di degradare nell’affetto dipendendo dalla struttura del discorso prevalente. Basta che venga a mancare il sembiante, o la sembianza come attivazione del discorso, perché un’emozione si possa trasformare riducendosi all’affetto.
Potremmo inventare il gioco di far corrispondere ciascuna determinata sensazione, emozione o affetto, al genere narrativo ad essa appropriato. A cominciare dal desiderio a cui attribuirei il genere del racconto, anche inteso nel senso più ampio che può giungere a comprendere la teoria. Niente desiderio senza racconto.
A seguire, l’amore, quello idealizzato, il cui genere narrativo corrispondente direi potrebbe essere quello della fiaba. L’amore richiede il sostegno della fiaba. Niente amore senza fiaba. E la fiaba, si sa, viene raccontata ai bambini da parte degli adulti quando fanno i bambini. Potremmo chiederci il perché. Intanto, le fiabe, quelle che ci hanno raccontato quando eravamo bambini, quasi tutte sarebbero da cestinare, impregnate come sono dal fantasma materno che distilla in successione sia moralismo che angoscia. La chiusura è da rifiutare non tanto perché ci presenta il lieto fine, ma perché questo lieto fine è posto sempre come la prova della valore dell’intenzione edificante che sottende la vicenda raccontata. La fiaba di per sé non sarebbe che l’esigenza della qualità che il racconto quale sua propria essenza può distillare.
Potremmo domandarci perché mai i bambini siano estasiati da locuzioni come: c’era una volta…, cammina, cammina…, cerca, cerca…, tanto tempo fa…, in un paese lontano… al tempo dei tempi… ed erano bei tempi davvero…, e vissero felici e contenti. E dobbiamo fare lo sforzo di esaminare queste locuzioni comuni che si avvalgono ordinariamente della ripetizione, e provare a rintracciare anche qui l’emozione corrispondente. Intanto, l’indeterminazione; qualità specifica dichiarata esplicitamente che in ogni fiaba lascia intravedere, senza eccezione, un’apertura sconfinata nel tempo e nello spazio. Il tempo e lo spazio sono fuori dalla misura comune, anzi sono forse la preda più ambita dal racconto che in un certo senso li fagocita (e ricordiamo la contiguità fra il sogno e il racconto).
Il fatto è che anche da adulti abbiamo bisogno delle fiabe. In effetti, le fiabe più interessanti svolgono il tentativo (riuscito?) di preservare l’enunciazione, il dire, l’inconscio, cercano di fare in modo che non sia soverchiato dal detto, dal discorso.

La ripartizione fra parola e discorso non evidenzia una semplice distinzione interna alla teoria in opposizione alla pragmatica (e al mondo), ma è il riflesso della differenza originaria nella parola che si riverbera nel fantasma materno. Il discorso (o come Magritte spesso si esprime, il pensiero – di qui la sua difficoltà e il fraintendimento in cui cade -) cioè, è il mondo quale prodotto del fantasma materno totalizzante. Un enunciato è suscettibile di totalizzarsi, di centralizzarsi (ecco la soggettività, la visione del mondo, la credenza nella percezione autonoma, cioè svincolata dalla parola, la credenza nella rappresentazione). La ripartizione fra parola e discorso (o fra parola e mente, fra parola e pensiero) è un abbaglio che ha conseguenze funeste sul piano della vita autentica, cioè della vita nella parola originaria.
Che il mondo sia rappresentabile non è una sufficiente garanzia per la sua autenticità; al contrario è il sintomo evidente della finzione operante nella credenza della sua esistenza. Questo sospetto di finzione è di solito scongiurato restando all’interno della stessa rappresentazione: ecco l’origine della produzione di angoscia e la creazione di un opposto, oscurità, notte, inerzia, mistero, in un rimbalzo immaginario che può diventare incessante da un polo all’altro della rappresentazione. Il lavoro della rappresentazione è proprio quello di fissare la differenza della parola nel dualismo. La percezione ordinaria opera questa creazione di un mondo speculare (divisione fra il soggetto e il mondo) che però è minacciato, e da cui può sorgere un rinvio infinito dovuto alla costrizione a restare all’interno della stessa percezione, se manca la risorsa della parola.


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