Seminario del 29.5.2008
Quello che mi appassiona nei film di Wim Wenders sono le scorribande del desiderio nell’avvicendarsi delle immagini, quasi come avviene nei sogni. Un desiderio che vorrebbe appuntarsi metonimicamente, come fa per sua natura il desiderio, su qualsiasi elemento dell’inquadratura, con accortezza intorno a minimi accostamenti di oggetti, persone o situazioni. E’ quasi sempre leggibile nei suoi film una sorta di racconto artificiale che scorre sopra la trama principale carsica, frammentata del film. Si tratta del valore intellettuale in grado di filtrare il desiderio e che sorvola sulla trama delle vicende narrate, per condurle altrove. L’interrogazione, o l’enigma che ne consegue, provoca il dispiegarsi del racconto non presentando, in ogni caso, risposte conclusive, ma solo il rilancio interminabile del racconto stesso. Racconto che, in un certo modo, vive di forza propria e non cessa di non giungere a una conclusione. Un racconto che si nutre della conversazione e che produce come risvolto il desiderio. Solo nel persistere sta il suo valore ed è qui che entra in gioco il desiderio che sottintende il rilancio persistente dell’enigma stesso.
Quantomeno difficile una definizione del desiderio. Il desiderio che è sempre metonimico, cioè che si esprime nel distrarsi dall’universale, sottraendosi all’enunciato generale e conclusivo, ma anche in un certo senso che si serve di esso, come oggetto da scansare proprio per poter proseguire. L’ostacolo è quindi necessario al ritmo del racconto. Nessun oggetto definitivo o inquadrabile del desiderio, nessun oggetto rappresentato, nulla che possa surrogare l’ostacolo assoluto, il sembiante. Nessuna scorciatoia. La conversazione resta lo strumento fondamentale per valorizzare un’idea, e una trama corrispondente, facendole assumere una portata intellettuale senza la quale sarebbe stata più povera e angusta, una mera rappresentazione. Che la conversazione si svolga nell’abitacolo di un’automobile, all’interno di una biblioteca o in qualsiasi luogo anche improbabile, vale a ribadirne l’importanza all’interno del racconto. Che si svolga al terminal di un aeroporto o in una stanza d’albergo (come in Fino alla fine del mondo) vale ad accennare alla sua importanza decisiva in relazione al viaggio che attende i protagonisti interlocutori. Questo è il timbro del desiderio che pervade nel film.
Di scorcio, è possibile notare come in un altro regista, Quentin Tarantino, forse più popolare di Wim Wenders, la conversazione svolga un ruolo essenziale nello svolgersi delle vicende raccontate. Il confronto può apparire incongruo, comunque un po’ forzato, ma per noi è interessante proprio al fine di chiarire il rapporto fra il desiderio e la conversazione. Per il regista americano la conversazione (o il dialogo che, involvendo nei suoi paradossi, cerca di assurgere a conversazione) è assolutamente necessaria a preparare l’imminente spargimento di sangue, vale a dire a introdurre l’ironia nel racconto che inclina al grottesco e quasi al surreale, con il fine di de-sacralizzare e rendere quasi fumettistico l’evento tragico che ne seguirà. Mentre in Tarantino, tuttavia, la scena del crimine conserva un certo tono di sacralità e di sfogo della pulsione sadica, sulle orme di un’ideologia tutta americana dell’eroismo tragico e del dramma epico come catarsi collettiva (e proprio per questo motivo i dialoghi, che precedono le scene più cruente, inclinano verso il delirio), nulla di tutto questo è rinvenibile in Wenders. In Tarantino, la scena del crimine e, dunque, la credenza nel fatto, è sempre al cuore delle preoccupazioni del regista, anche se l’antefatto del dialogo parrebbe di riflesso acquistare un’importanza sempre maggiore, un’intensità allucinata che lo rendono ipnotico, affascinante (ma anche enigmatico) e che rendono via via più improbabile e grottesca l’azione che ne seguirà.
Nel regista tedesco, invece, in primo piano è sempre l’intenzione intellettuale la quale, pur conservando ancora ne Il cielo sopra Berlino l’apparenza di una giustapposizione un po’ forzata, fra il concetto e la vicenda raccontata, diviene man mano più consapevole, pragmaticamente più avvertita del proprio autonomo e intrinseco valore, ossia del fatto che la conversazione (e, noi aggiungiamo, il sembiante) è il motore autentico di una vita che si compie diventando interminabile; di una vita che ora è, dunque, pervasa dal desiderio.
E per concludere il confronto tra i due registi, accentuandone forse un po’ eccessivamente le differenze, si potrebbe osservare che mentre la costrizione imposta dal dialogo (che non può evitare la menzogna fino a quella più roboante) conduce Tarantino a cercare di stupire con le più assurde e mirabolanti invenzioni, fino ai torrenti di sangue sulla scena, nel tentativo probabilmente di arginare il rischio di un venire a mancare del desiderio (del racconto); in Wenders, per il privilegio accordato preferibilmente alla conversazione, non c’è bisogno di tutto questo. La conversazione, piuttosto che il dialogo, si svolge sempre sul filo del malinteso anziché della menzogna, e proprio il malinteso, con la sua imperturbabile agilità nel procedere infischiandosene di sé medesimo, è la condizione che garantisce dell’esistenza del desiderio. La menzogna reclama, cioè, di essere smascherata dalla presunta verità del fatto, mentre il malinteso si accontenta del racconto e si pone al di là dell’opposizione fra il credibile e l’incredibile, fra il vero e il falso. Equivoco, menzogna e malinteso sono comunque le proprietà del racconto e del sembiante. Di qualsiasi racconto, e dunque della stessa vita, che si nutre soltanto di racconto e se ne infischia, di conseguenza, della supposizione di una presunta verità del fatto. E’ soltanto dalla conversazione che si sprigiona il desiderio.
Forse per le ragioni appena esposte, mi è rimasta impressa in Fino alla fine del mondo una brevissima citazione, un fermo immagine quasi impercettibile in una scena per strada; due auto posteggiate, una nuovissima con la sua forma aerodinamica sfolgorante accanto a un altro tipo, un’auto ormai decrepita, vecchia di qualche decennio. Nell’accentuare una differenza, ancora inconsistente, tra il nuovo e il vecchio, Wenders ha forse voluto accennare a una possibile conseguente divaricazione fra ricchezza e povertà, accennare a un disordine prossimo venturo, al caos di un mondo ormai in bilico fra tecnologia esasperata e imminenti sacche di miseria. Sappiamo che il film si avvale anche del pretesto del racconto di fantascienza. Infatti, è ambientato nel futuro, un futuro però molto vicino (tra l’altro, per noi, ormai passato da tempo). Girato nel 1991, è ambientato nel 1999 alla fine del secolo (forse non per caso). Mi pare di rintracciare in questo elemento emblematico (come certamente in numerosi altri, ma più elaborati) un modo di muoversi delle vicende e dei sobbalzi del desiderio. Nel tentativo di voler afferrare l’essenza del desiderio, infatti, è impossibile prescindere da una modalità del tempo. Poiché con tale dispositivo, che li sottrae immediatamente dal qui e ora mortifero e anche dal tempo lineare, i personaggi del film si muovono nell’anticipazione che è loro consentita da un futuro dove non riconosciamo più, se non come residui, quegli antefatti di qualsiasi genere (geopolitici, sociali, tecnologici, di costume, di potere e altri ancora) che li fissava nella loro greve immobilità e insoddisfazione. Costoro, i personaggi, è come se certamente si muovessero in una realtà immaginaria, ma ora più libera perché vincolata soltanto dai residui e dagli ostacoli di un mondo che parrebbe già in procinto di scomparire. Nostalgia, elementi residui presi nel racconto (bricolage avrebbe detto Claude Levy Strauss). La sospensione concessa ai personaggi e alle situazioni descritte nel film non li proietta in un futuro in qualche modo lontano e, in definitiva, abbastanza facilmente rappresentabile, ma li sospende nella loro natura di sembianti. Il futuro richiede la memoria, il lavoro della memoria, e questo è già desiderio che si esprime nella parola, nel racconto, piuttosto che nella mera pre-visione. La profezia, che è meravigliosa perché a-temporale e perché è nella parola, può, con questa breve sospensione che la situa dunque nella sembianza, colmare il distacco e la menzogna relativa alla banale pre-visione degli eventi. Impossibile, dunque, prevedere un evento. Un evento non può letteralmente esistere nella pre-visione, mentre la profezia è la luce del sembiante nella parola.
Il desiderio richiede l’ostacolo, come l’apertura richiede l’ossimoro: il desiderio è cancellato se la vita è già data e si contrappone banalmente alla morte rappresentata. Ma, nell’ossimoro vita morte ecco scaturire imprescindibile il desiderio. E anzi, la vita richiede come opposizione la morte per non concludersi nella rappresentazione di sé medesima e, dunque, in una morte seconda. Così la morte richiede di risollevarsi nella vita per non identificarsi all’ostacolo assoluto e perdersi in quanto vita. Vita e morte, nel loro movimento, risorgono nel racconto, non sono più né la morte né banalmente la vita. Non sono più tali.
Wenders sembra essersi accorto che la vita è soprattutto movimento, noi diciamo che è nel viaggio intellettuale, che l’impegno è questo; non per sconfiggere la morte, ma per renderci esperti del fatto che anch’essa diventa sempre altra; in quanto ostacolo non più assoluto.
Nei film di Wenders, forse, la bellezza ai personaggi è conferita dal fatto che in essi è sempre presente l’ossimoro, anzi quei personaggi, come infine ciascuno di noi, non altro sono che ossimori viventi. E tanto vale per il desiderio che è, in fondo, la prerogativa dell’umano proprio perché lo trascende. Forse, gli esseri umani non possono essere decifrati che come un’allegoria dell’ossimoro. Le nostre stesse funzioni vitali sussistono svincolandosi fra i contrasti e, in noi, gli opposti sono proprio collegati intimamente, zone deputate a funzioni divergenti sono collocate nella più stretta adiacenza: gli organi del piacere sono al tempo stesso organi repellenti, nascimur inter urina et fecis. Gli organi riproduttivi si situano accanto a quelli secretivi ed escretivi, come si dice nel linguaggio dei biologi.
Non è come se anche il desiderio si spegnesse quando la bellezza si separa o si allontana dal suo opposto? Una bellezza isolata nella sua algida perfezione, senza l’ostacolo di un divenire, o del rischio del suo opposto, è una bellezza già contaminata e dunque non è più tale. I media, ciò di cui Wenders ha tanto orrore, propongono una rappresentazione della bellezza depurata dal suo opposto (che ritorna però come banalità del linguaggio o nell’erotismo), ma proprio per questo insopportabile o ripugnante addirittura. Modelle platinate, ma linguaggio scurrile, e così via. L’ossimoro è nel movimento stesso, è la differenza originaria; è l’essere umano nella differenza originaria. E alla misura del valore il pragma è indispensabile.
L’ossimoro è la differenza originaria. L’antitesi immagine parola ricalca quella fra l’oggetto e il concetto che vorrebbe afferrarlo. Anche per quanto riguarda l’oggetto è impossibile non tener conto dell’ossimoro. Un oggetto che si sottrae nel movimento stesso con cui si offre, che si offre proprio perché si sottrae. La seduzione dell’oggetto è questa. Un oggetto che si getta contro e che in questo gettarsi, ovvero nella sospensione da ogni possibile misura di un movimento, poiché il movimento dell’oggetto, nel suo offrirsi e nel suo sottrarsi, non è registrabile da queste categorie della misura, conquista il suo valore di seduzione. Ed è per questo che il desiderio è altro. Il desiderio è desiderio dell’Altro, come vorrebbe Lacan, non perché l’Altro ne sarebbe il soggetto detentore e padrone, ma solo nel senso che l’espressione che lo rende tale richiede proprio l’ossimoro, la frammistione degli opposti, la conciliazione che avviene con la loro mutua contaminazione. E si vede bene come il desiderio richieda la sembianza, la quale non è che ossimoro vivente, per saperci fare in qualche modo con l’oggetto. L’oggetto che non è assunto nella sembianza è un oggetto ormai morto e qui morto è da intendere come oggetto privo di movimento, di movimento significante, cioè ancora di ossimoro. Infine, l’oggetto, propriamente, non è che l’ossimoro nel movimento del suo succedere alla differenza originaria.
Sul filo del desiderio (originato dalla conversazione) dunque, i film di Wim Wenders. A voler riconoscere un percorso o intravedere almeno un’evoluzione tematica fondamentale, direi che ne Il cielo sopra Berlino, è ancora in qualche modo il dia-logo, e dunque il concetto, a prevalere sull’oggetto e sull’immagine, a prevalere, dunque, sulla sembianza dato che immagine e oggetto possono giacere morti, scissi, l’uno accanto all’altra, soltanto in relazione al concetto. Mentre, in Fino alla fine del mondo è invece il significante in piena azione; vale a dire, il sogno come racconto (e la conversazione). Il rebus, in primo piano, l’enigma, la cui caratteristica è l’incessante e mutuo scambio fra immagine e parola. E’ questa la sembianza della parola: la parola che cede all’immagine e che ritorna nella parola successiva. La parola mai identica a sé che ritorna da un’immagine senza alcun fondamento o luogo in cui consistere. Nel rimando di un movimento incessante. Il due.