La profezia dell’analista


Seminario del 25.6.2008

Possiamo trovare inserito l’appuntamento che vale un’occasione (kairos) esclusivamente nella rubrica dell’Altro. Non è la volontà di un soggetto, ma il sembiante che, sul cammino dell’inconscio, appresta l’incontro. Secondo il racconto e anche secondo la scrittura, nella melodia della voce è il sembiante che prepara l’appuntamento opportuno e che dispone ciascuno all’avventura.

Avviene che qualcuno manchi gli appuntamenti. Senza rispetto e cura dell’Altro l’appuntamento non potrà che esser mancato. D’altra parte, nessuna accidentalità nell’incontro, non casualità ma appunto causa. Nessun miracolo una volta negato il sembiante come causa. L’appuntamento che vale l’occasione è quello causato dal sembiante.

Calcolare o misurare il tempo rappresentandolo è un modo per mancare l’appuntamento. Occorre la sospensione, l’intervallo. Come descrivere il movimento verso l’occasione? Come qualsiasi dimostrazione anche un esempio è già rappresentazione, e perciò non sfugge all’alterazione del kairos (evento favorevole) nella tiché (evento sfavorevole). Qualsiasi esempio è inadeguato a descrivere questo passaggio. Potremmo tentare di dirne qualcosa mediante un’allegoria con qualche tratto di pertinenza. Potremmo dire che predisporre l’occasione è un po’ come incappare nella ragnatela al cui centro in agguato è il sembiante. E il ragno, feticcio che incarna il bene e il male assoluti, animale fantastico temuto, perciò idealizzato, è noto che dispone di uno strumento inimitabile e alquanto ingegnoso, la tessitura della sua robusta e finissima tela. Più di ogni altra, quell’arte preziosa del ragno ci rinvia all’enigma del tempo. Precisamente il ragno rinvia al sembiante e la sua tela alla traccia della sembianza nella parola, alle occasioni che (per lui) affiorano nell’Altro. Se la virtù del sembiante è la profezia, nell’atto di tessitura della ragnatela si cela anche l’enigma del tempo. E’ il sembiante, un po’ come il rapidissimo ragno, a giocare d’anticipo.

Ecco una similitudine, meglio, un’allegoria. Il ragno non è che allegoria del sembiante. E’ bene ricordarlo; non tanto il ragno in sé (rispetto alla cui figura, essendo un Altro rappresentato del mondo animale, qualcosa rimane di oscuro che resiste al nostro sapere), bensì la rappresentazione che ci facciamo del ragno. E se noi indugiamo nel campo del paragone, della rappresentazione, ecco che il sembiante non è più tale. Il ragno ci appare piuttosto un sembiante degradato e gnostico (provate a dirlo al moscerino che il ragno incarna la giustizia, come sarebbe proprio del sembiante!). Nondimeno, questa figura d’animale esprime bene l’idea di un reale sfuggente, l’idea di un reale irriducibile e di un oggetto che non può essere afferrato, almeno per il fatto che parrebbe in grado di dominare il tempo. La tela può illustrare la trama delle occasioni a patto che non sia più rappresentata come ragnatela, cioè come trappola. La sua tela finissima allora può trasformarsi nella tela dei significanti che non consente il rinvio ad alcun reale oltre se stessa. Per di più, tale raffronto consente di comprendere agevolmente il passaggio accennato dalla tiché al kairos. O dalla preveggenza alla profezia. La preveggenza è presagio (quale può essere il ragno nella mente del moscerino) e dipende dalla rappresentazione di sé, dell’Altro e del tempo. Il presagio ha, dunque, una propria salda realtà, una ricaduta sfavorevole, come la profezia ne ha una favorevole. La profezia però richiede l’Altro (non la sua negazione) e non sopporta alcuna rappresentazione, alcun esempio. La profezia si dà per l’assoluta solitudine della voce nella forma del monito o dell’ammonimento.

Il mondo non è dato. Perché dovrebbe esserlo? Lo è nel fantasma materno. Soltanto nel registro della frase, nello scarto della sintassi e pertanto in assenza del pragma, il mondo è concepito come dato, come a sé stante. Generalmente avviene così. Ma il mondo si offre nella frastica, ciascuna volta sintatticamente, e avviene parlando. Inevitabili sono l’equivoco e la menzogna. Il mondo si srotola davanti a noi, metafora e metonimia, proprio come in un sogno e il mondo non è altro che un sogno. Ma non innanzi o dietro a noi. Queste sono esperienze della superstizione; davanti o dietro a noi. Presagio o illusione. Il mondo sia nel bene che nel male dipende dal nostro modo di pensare; pensare il bene o il male. Allora il mondo dipende totalmente e senza scampo siamo davvero incappati nella ragnatela del nostro fantasma materno. E’ l’illusione a evitare il bene, mentre è la premonizione a lasciare accadere il male. Come minimo, se siamo dipendenti dalla frastica, il mondo si presenta come caso, come del tutto casuale. E il caso si definisce allora come rappresentazione della pragmatica: il mondo in una sintassi e in una frastica raggelata, il mondo reso immobile sotto il dominio del calcolo e del sapere. Negato il sembiante come causa. Ma per il nostro Kairos occorre il sembiante che funzioni come causa.

Occorre che il mondo avvenga nel pragma. Questa è l’esperienza più autentica che siamo capaci di fare, la sola a meritare la nostra attenzione. Che il mondo si conceda nella sintassi e acquisti un po’ di senso nella frase, staccandosi da noi proprio mentre lo stiamo sperimentando, ovvero che parlando ci esprimiamo (perché questa è l’unica esperienza che ci possiamo concedere), vuol dire che a priori non esiste alcuno spazio né alcun tempo che preceda e che non si muova da questo nostro parlare. Di conseguenza, non esiste alcun luogo già fissato dell’appuntamento. Nella sintassi e nella frase abbiamo la possibilità di fissare il tempo e il luogo di un appuntamento, ma le coordinate di questo luogo al quale ci destiniamo o siamo destinati sono anch’esse grammaticali. Se unicamente dipendessimo dalla sintassi o dalla frase, come avviene peraltro quotidianamente, renderemmo assoluti sia lo spazio che il tempo del nostro incontro; a regnare dispoticamente sarebbe il tempo dell’orologio. Non ci sarebbe alcun incontro. L’incontro cui ci riferiamo correntemente (ideologicamente) lo intendiamo come l’incrocio degli assi cartesiani, delle ascisse e delle ordinate, nello spazio rappresentato e nel tempo assoluto. Siamo distanti in tal caso dalla coerenza pragmatica. E la coerenza dipende dal registro pragmatico. Certo, noi chiamiamo individuo o persona qualcuno con una certa consistenza e che dimora in uno spazio proprio e in un tempo, ma stiamo trattando qualcuno come un feticcio. La persona ce la rappresentiamo comunemente crocifissa agli assi cartesiani. L’essere che parla e dipende dal sembiante ha ben altre risorse e occasioni d’esistenza nel pragma, irriducibili a qualsiasi dinamica o cinematica.

Senza le funzioni del sembiante, la sintassi e la frase, senza il registro della legge e quello dell’etica, nulla può capitare. Proprio nulla. Nessuna funzione di zero, di Altro, niente intervallo, nessun incontro. Allora anche Dio si allontana. Quando si parla d’incontro occorre precisare: l’incontro non avviene fra due persone, ma nell’intervallo della combinazione fra il corpo e la scena. Questo, l’incontro originario.

Occorre dimorare nell’intervallo, nella sospensione, il che significa che occorre provocare il taglio della parola, porre attenzione alla sua ambiguità, sostenersi nel distacco. Distacco dal simile, il quale ultimo non è che l’espressione manifesta della mia alienazione negli enunciati. Distacco dalla fissità, dalla fissazione, dall’ipnosi e dalla suggestione della scena che vorrebbe capire il simile, ossia vorrebbe catturarlo nel concetto.

L’Altro sospende il tempo e lo spazio dell’enunciato, nell’Altro non è più possibile una distinzione fra corpi o persone. Non sono più isolato né in compagnia, quando alloggio nella parola originaria. L’analista non occupa il tempo e lo spazio dell’enunciato, dimora nell’Altro, si trova nella solitudine, la solitudine della parola.

La sospensione nella solitudine della parola, da una parte; dall’altra l’evento, il kairos come sua pertinenza. Come separare questi momenti, queste due parti, se non ricadendo nuovamente nella logica del tempo lineare? La separazione originaria è nella parola, ne consegue che non possiamo separare il kairos dalla sospensione stessa. Nella sospensione della solitudine è il mondo stesso che si raccoglie e la sospensione è un valore d’eccezione perché preserva l’evento. Il distacco richiede comunque la parola e anche la scrittura come esercizio supremo della parola; la scrittura che è sospensione in atto, la scrittura dispositivo di sospensione. L’analista è dunque profeta? Come può esserlo se non si tratta di prevedere, cioè di intervento della rappresentazione? In questo enigma paradossale c’è possibilità di inserire qualcosa. Difficile, ma lì dobbiamo giungere. L’analista è profeta proprio perché ha smesso di pre-vedere. Perché si affida alla parola, alla sembianza. Ne consegue l’unica soluzione decente: ovvero, che nella sembianza della parola in atto è travolto il tempo lineare.

Per intanto ancora la scrittura. Donde trae la sua efficacia la scrittura? Sospensione dello spazio e del tempo ad opera della scrittura. In effetti, ogni parola scritta, si rivela non identica a sé. La scrittura lungi dall’identificare la parola a se stessa ne rivela l’inconsistenza. Scritta volant, verba manent ci avrebbe detto Lacan, rivoltando l’adagio latino. La scrittura rivela l’impossibile fissazione della parola, che la parola si fissa proprio là dove sembrerebbe maggiormente libera e viceversa. In definitiva la scrittura è attivazione della parola, al di là del senso, per un senso nuovo. La parola si fissa soltanto nel fantasma, nessuna sostanza già data al di fuori da tale stabilità. La materia, che è della parola soltanto, consiste in questa immobilità dell’enunciato. Libertà assoluta della parola che soltanto ricadendo nell’enunciato produce fissità, distanza, tempo lineare. La scrittura è dunque sospensione, libertà, dissolvimento della fissità dell’enunciato e della sostanza. Il mondo è dato nell’enunciato. Le distanze fissate nell’enunciato e il tempo scorre soltanto nell’enunciato.

Solitudine, distacco dall’enunciato nell’analista che pertanto cerca di vivere fuori del tempo bloccato. Nel campo dell’Altro. Il sembiante è al di fuori del tempo. Nell’Altro tutto è presente non presente, ogni evento passato, presente e futuro. Presente non come istante presente, ma come taglio nel tempo lineare, come racconto. L’analista è in anticipo nel racconto. Ogni anticipo non può che essere misurato nel racconto. In anticipo o in ritardo noi lo diciamo solitamente sul riferimento dell’enunciato, ovvero del tempo scandito dall’orologio. Quando l’analista è in anticipo, questo gli è consentito dal dispositivo dell’analisi che precisamente opera nel senso di un trasferimento, che in realtà è un taglio, dal tempo dell’enunciato al fuori tempo dell’enunciazione. In riferimento all’Altro, vale la contingenza del tempo dell’analizzante, affinché con l’intervento dell’analista (intervento che non suppone alcuna volontà o volontarismo dell’analista) si dissolva nell’enunciazione. Propriamente enunciazione ed enunciato possiamo distinguerli soltanto ad opera del dispositivo dell’analisi. Soltanto nel riferimento alla presenza dell’analista quello dell’analizzante si rivela sempre come un enunciato dal quale l’analista può consentire il distacco e il rilancio affinché si ricomponga la condizione per il kairos.

L’intuizione agostiniana di un tempo creato da Dio (dall’Altro) e l’affermazione avanzata più volte dal teologo che il mondo è stato creato insieme al tempo e non nel tempo, parrebbe non aver trovato un seguito nella storia del pensiero, con la sua segregazione fatale nel discorso mistico o religioso, mondo a sé stante e separato dall’esperienza pragmatica del tempo. Le riflessioni teoriche sul big bang ne sono la recente conferma. Nessun dubbio, nessuna esitazione che possa minare la certezza di un’origine in un tempo lineare e continuo, quello termodinamico della freccia del tempo, oppure (nel dominio filosofico) nessun dubbio a minare l’ipotesi della filiazione del tempo dal concetto. Eppure, proprio in relazione a quest’ultima tesi, ancora il grande Agostino avrebbe potuto ispirare certamente qualcosa di più interessante, se consideriamo che alla domanda su cosa fosse il tempo, umilmente risponde: “quando non mi viene chiesto mi sembra di saperlo, ma se soltanto me lo domandate non so più cosa rispondere” (Le confessioni). Il pensiero (il concetto) non può certo pretendere di afferrare il tempo con un’idea che non si riveli illusoria e in balìa della parola originaria. E qualsiasi incontro (in tale concezione gnostica del tempo contro cui Agostino si batte) non può che rivelarsi come mera tyche, se è vero, come piuttosto crediamo, che la tyche, l’incontro casuale, stia al concetto, al calcolo, come il kairos, l’incontro fortunato, l’evento miracoloso, sta alla parola.

Comunemente non facciamo che alienarci continuando a regolarci sul tempo dell’orologio, che è un tempo concettuale, l’idea operativa, e con la medesima algebra misuriamo l’accadere di qualsiasi evento.

Il tempo affiora, nondimeno, dall’Altro. Nel campo dell’Altro, nell’intervallo, ove la parola non è spazializzata, il tempo non è lineare, non è tracciato sulla linea passato, presente, futuro. Il tempo non avendo sostanza è modale. Occorre indagare l’occorrenza dell’immagine nel sogno, nel racconto che è la dimensione in cui incessantemente la parola si converte nell’immagine o l’immagine si fa parola. Flessibilità del desiderio, pragma, catacresi.

Se tale luogo di conversione della parola nell’immagine, o dell’immagine nella parola, è un non-luogo ed è a-temporale, allora in relazione a questo punto non può darsi né il passato né il presente né il futuro. Conversione del fatto nell’evento significa che in qualche modo il futuro, in questo punto, appartiene al passato e il passato al futuro. Compenetrazione di tempi che, tuttavia, non offre alcun appiglio alla preveggenza, alla predeterminazione, se non nel discorso che torna a spazializzarsi e, dunque, non può eludere l’inganno. Il sogno profetico è in effetti un’illusione, ma siccome è l’evento ad allineare il tempo, nell’evento sono compresi certamente i fatti. L’evento non può mai essere rappresentato dal fatto, ma l’evento ricopre e avvolge il fatto. Propriamente nell’evento sono anche compresi gli accadimenti futuri. Esprimendoci in modo più accurato (se ciò fosse possibile) noteremmo che l’evento anticipa soltanto il tono dell’accadimento che ci attende. Questo luogo di ex-timità dell’evento è un luogo in cui l’immagine e la parola vanno convertendosi l’una nell’altra, e in tale conversione non può essere schivato l’inganno.

Ogni esperienza della nostra vita ordinaria è costituita da questi ingredienti; immagini e parole che si succedono e dall’irruzione dell’evento (kairos o tiche). Che l’evento sia kairos o tiché dipende da quella che definiamo condizione etica in cui siamo immersi. Aver cura di sé, nella parola, puntando all’etica significa apprestare l’evento fortunato. In tal modo possiamo, per più di qualche verso, controllare il futuro. Ciò che avviene non richiede, per ad-venire, alcuna rappresentazione del tempo e dell’evento e si mostra soltanto a questa condizione. Ciò che avviene si profila quando il mondo perde di profondità, che è profondità della rappresentazione, e la parola diviene efficace. Se è la parola a detenere un simile potere di lasciare che incomba quella bianca parete trasparente che accenna all’incipiente profilarsi dell’oggetto-evento, qui l’enigma almeno in apparenza è insolubile. In effetti, se la logica stessa della parola non può che procedere dalla parola, se non è sopra o sotto o accanto alla parola, il movimento per cui la parola si converte nell’oggetto-evento, presenta sempre qualcosa di elusivo. In qualche modo possiamo farne esperienza, saperci fare con questa apparizione (forse che l’analisi non sia altro che questo cammino?); basterà sospendere la rappresentazione avvalendoci della parola efficace che infine è quella etica, parola che possiamo definire di richiamo dell’oggetto. Certo possiamo farlo, invocando, pregando o domandando, ovvero rapportandoci con il sembiante. Risulta però difficile aggiungere qualcosa su tale convergere della parola nell’oggetto.

La distinzione fra indovino e profeta non si esaurisce nel constatare che il primo prevede e il secondo predice, ma nel riscontro, più interessante per noi, che l’indovino prevede commettendosi alla suggestione, mentre il profeta si fa portavoce di Dio. La profezia nella bibbia è quasi sempre presente nella forma del monito e, nel mondo greco, anche la sibilla presagisce per enigma, celando o lasciando appena intravedere, comunque dando spazio alla parola rispetto all’immaginario. Il profeta esige dunque l’Altro, parla in nome di Dio.

Nella sfera di cristallo, l’indovino invece scorge una rappresentazione esposta al rischio di un racconto qualunque che è presto abortito; in primo piano non resta che l’immagine, il fulmine che irrompe e che diviene previsione catastrofica. La previsione invariabilmente è presagio di sventura, per l’immobilità assegnata alla profezia nel fantasma materno. Una profezia degradata, cancellazione della voce e dell’avventura.

La profezia invece è monito, viene dall’Altro senza indulgenza nella rappresentazione. Rimane la voce in primo piano, nella sua solitudine, a impedire alla visione di fissarsi. Dunque, la profezia al limite è contro la visione. Quando le cose inclinano al peggio e la sensazione dell’evento sfavorevole incombe, qual è la situazione?

La sventura si abbatte sull’intera stirpe dei Labdacidi. E’ sventura per aver voluto a tutti i costi identificare la causa attribuendola di volta in volta a qualcuno, sia pure in un rimando interminabile. Ma i grandi autori di tragedie greche non risolvono per nulla la questione, poiché non fanno che rinviarla all’ananke, proprio quando non possono attribuirla a qualcuno. Sembrano, bensì, intuire che si tratta del fantasma materno e che per questa ragione si abbatte la sventura, ma personalizzano il fato, ne fanno un tiranno assoluto, tanto che ad esso si sottomettono persino gli dei. Non lo fanno dipendere dal fantasma e dunque non riconoscono il fantasma materno in quanto fantasma. Il fato, assoluto tiranno, è svincolato dal fantasma, e ricade nell’universale del fantasma materno. Ancora lontana a venire è la parabola dell’assoluzione nel verbo cristiano.

Il sembiante con la sua follia non può essere rappresentato. Le sue funzioni di specchio, sguardo e voce, non possono essere rappresentate, non possono essere oggetto di calcolo e misura. Allorché ci riferiamo all’accentuazione di una fra queste funzioni occorre pertanto precisare che siamo ancora nell’ordine della rappresentazione. L’accentuazione della funzione di sguardo implica paradossalmente la negazione di questa funzione, così per le altre. La negazione della funzione la fa risaltare. Una funzione di sguardo accentuata dipende dall’attribuzione di un soggetto allo sguardo e il tentativo di sottrarsi da un assoggettamento allo sguardo.

E’ la negazione, il non, a mostrare l’esistenza del sembiante. Il non che è sempre un non è questo. Lo specchio esalta il sembiante tramite la metafora che è un modo per esprimere il non per distrazione, lo sguardo esalta il sembiante tramite la metonimia che è un modo per esprimere il non per sottrazione e, infine, la voce esalta il sembiante tramite la catacresi che è un modo per esprimere il non per astrazione. Così i vari discorsi sono un modo per supplire all’assenza del non: il non dello sguardo e della voce nell’isteria, il non dello specchio e della voce nella nevrosi ossessiva, il non dello specchio e dello sguardo nel fantasma materno.

Il non è funzione di rimozione, funzione sessuale. La nominazione è funzione sessuale. Gli esseri umani possono intendere qualcosa soltanto per l’esistenza di questa funzione. Anche il miracolo è sempre connotato pertanto dal sessuale. Gli esseri umani inseguono il miracolo e non Dio, sottilmente annotava Gianluca, e con questo non ci indicava propriamente il loro dipendere dalla nominazione? Dalla logica dell’equivoco e della menzogna? Giacché, verrebbe la voglia di ribattergli, se cercassero soltanto Dio, come davvero hanno poi finito per fare attraverso i secoli, avrebbero mancato il miracolo, come in effetti è avvenuto (per invocarlo mascherato nel prodigio, più che sopra, naturale, vedi Lourdes o Padre Pio).

Gianluca, ancora, potrebbe replicare che gli esseri umani non debbono cercare il miracolo in quanto miracolo, non debbono, cioè, in alcun modo rappresentarselo, e che ciò vuol dire davvero cercare Dio, pregare, domandare. Allora non potrei che acconsentire. Cercare Dio significa, in effetti, paradossalmente mancarlo, degradare la logica della nominazione (che sopravvive soltanto nel pragma) nell’attesa spasmodica dell’incontro prefigurato, vedi il prodigio della guarigione.

L’impegno dell’essere parlante non può che volgere nella dedizione alla logica della nominazione. Questo per l’uomo significa cercare Dio. Umilmente, e che soltanto funzioni come operatore logico. E incappare così nel miracolo che soltanto da questa articolazione dipende. Metonimia e metafora, vale a dire, desiderio e potere di far rinascere il mondo. Il mondo nell’incontro.

Quando gli esseri umani si riducono a cercare Dio (a rappresentarlo) scartando la logica della nominazione e il racconto, non possono che incappare nella sventura (questa non è per niente una bestemmia). Allora incorrono nella superstizione e nella sventura. Ecco come insiste il miracolo ripresentandosi come sventura. Sventura, cioè assenza di avventura. Se Dio è il verbo, la colpa di cui gli esseri si macchiano non è allora quella di non rivolgersi a Dio, ma piuttosto quella di non accogliere la parola con la sua logica. Accogliere la parola con la sua logica già rappresenta il modo etico, insostituibile per domandare a Dio, per pregare. Situando Dio fuori dalla metafora e dalla metonimia. E Dio si manifesta ritirandosi. Vere tu es Deus absconditus, ci rammenta la Scrittura (Isaia, ripreso poi da Pascal).

La sventura è il miracolo imprigionato nel fantasma materno. E’ il racconto deprivato dal sembiante e questo non è che il fantasma materno. Il racconto deprivato dal sembiante è un racconto che inclina al peggio. Forse per esorcizzare questo pseudoracconto, la ragione occidentale ha introdotto la nozione di tutto (universale) e di calcolo, affidandosi al calcolo delle probabilità, al controllo della vita tramite il calcolo. Essa ha introdotto il calcolo nel volo della colomba che vorrebbe togliere l’aria nell’illusione di poter migliorare il suo percorso. Il calcolo della colomba. Ma se questa, senza il verbo non può che stramazzare al suolo, non è con il calcolo della ragione che potrà migliorare il suo volo. La nostra colomba tratta l’aria che la sostiene nel volo come l’uomo ha trattato il miracolo nel corso della storia. Come ha trattato quell’oggetto nella parola che frequentemente è rimasto inavvertito oppure alterato dalla rappresentazione, quell’oggetto che è, nello stesso tempo, l’ostacolo e la risorsa per il viaggio. Il calcolo della ragione che non sia calcolo dell’Altro, esperienza in atto, appresta già il velo del fantasma materno che conduce alla sventura.

Il miracolo insiste presentandosi nella rappresentazione come sventura. Come intendere questo? E il miracolo stesso può non avere a che fare, neppure minimamente, con la rappresentazione? Forse che non è per tale rappresentazione che lo cogliamo appunto come miracolo anziché come un evento qualsivoglia e indifferente? La parola originaria non sopporta alcuna rappresentazione, ma la parola originaria è la sessualità in atto e questo è il miracolo. Non è qualcuno a compiere il miracolo.


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