Il bambino sul nastro di Möbius


Seminario del 7.2.2008

“Vi sono tre regni della realtà; questi ambiti sono già espressi in maniera irriducibile nel linguaggio e chiaramente evidenziati nei cosiddetti pronomi personali. Dovrei aggiungere immediatamente che “pro-nome” non significa necessariamente “al posto del nome”, una sostituzione. Può anche significare “prima”, vale a dire più importante del nome. Un pronome è una parola veramente primordiale…”.
Il passo è di sicuro interesse, ma così scrivendo, Raimon Pannikar (Lo spirito della parola, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pag. 96) non ci manda fuori pista, peraltro sconfessando alcuni assunti fondamentali già espressi nella sua stessa vibrante teoria sulla parola originaria?
Il pronome è davvero originario? Come intendere l’apparente statuto primordiale del pronome? Assumere la primordialità del pronome non significa in effetti sconfessare la parola originaria, dando per scontato che queste particelle designerebbero delle realtà soggiacenti (sia pure espresse con la metafora dei tre regni), vale a dire delle individualità che ripartirebbero il discorso in un realtà inter-soggettiva irriducibile? Come mai Pannikar, da buon prete cattolico – prima che da insigne teologo – non ha nemmeno sospettato che questo tema ha proprio l’apparenza di un’antica discussione trinitaria e che i secoli della storia passata hanno già cercato di affrontare argomenti molto simili e cercare soluzioni a enigmi che presentano analogie sorprendenti con questo?
Affermare che il pronome sarebbe prima del nome vale a ripristinare il nome del nome in quanto originario. Vale a sancire l’individuo, l’intersoggettività, come fondamento della realtà e del discorso. Effettivamente, si può dire che l’intersoggettività sia a fondamento del discorso, o meglio l’intersoggettività è un concetto derivato dall’illusione del primato del discorso sulla parola. E’ la parola che occorre distinguere dal discorso (cosa che peraltro Pannikar ha già tentato di realizzare in questo suo libro con un’indagine documentata sulle origini del pensiero filosofico in occidente) per giungere a constatare che il discorso (o anche il pensiero) non è per nulla originario. Il discorso come causa, come res, è proprio l’abbaglio in cui s’impania il pensiero occidentale.
Da dove si originano allora i pronomi?
Io, tu e lui o lei, ma anche questo e quello sono l’idea del nome. Un’idea non è qualcosa di staccato dal mondo, ma anzi serve a frazionarlo, lo fa esistere in quanto varietà e molteplicità, per l’intervento di un nome appunto idealizzato. Un’idea è il principio della rappresentazione, un modo per duplicare il mondo e fissarlo. E il discorso, come modo di reiterare l’idea, salda questa duplicazione creando l’abbaglio di un’originalità del doppio, del simile, invece che dell’Altro irriducibile e non speculare; propone l’oggetto al posto del sembiante. Il pronome ha sicuramente questo d’interessante, di rappresentare un nome, di funzionare come idea del nome. Perché interessante? Perché è l’idea a provocare il distacco e la separazione delle cose. Le cose (gli individui) non sono separate da loro stesse prima dell’introduzione dell’idea. Ma anche dietro e non solo davanti sta il nome, la fase di bozzolo dell’idea. Anche il tempo risulta rovesciato e orientato soltanto con l’introduzione dell’idea. “Il concetto è il tempo della cosa”, enunciava Hegel: da intendere letteralmente; niente misura possibile del tempo prima dell’idea. Non esterno o interno, niente prossimità o distanza. In questo senso possiamo dire che il nome è originario, ma se diciamo che il nome viene prima o viene dopo, siamo già sprofondati nell’idea del nome e nel tempo lineare. Poiché è il nome a creare il tempo e il mondo. Se non fosse il nome, l’io, il tu o il lui sarebbero universali e non potrebbero differenziarsi l’uno dall’altro e dagli altri pronomi (vi sarebbe la prevaricazione dell’uno sull’altro, proprio nel modo in cui il rischio di prevaricazione nel ruolo di ciascuna persona era segnalato nei dibattiti sulla trinità) non potrebbero essere neppure quello che sono: un’idea operativa. E’ in fondo quello che è avvenuto con i diversi rivolgimenti del discorso filosofico (dall’idealismo assoluto, l’Io inteso come universale; allo scetticismo, il tu come universale; al materialismo, il lui come universale). Il nome, con il suo pervenire in soccorso all’idea, apre alla varietà del mondo. Il nome è un argine al delirio, ma il nome come idea o universale ne contrassegna piuttosto l’avvio.
Possiamo ulteriormente proseguire questo accostamento con la teologia (e infine con l’edipo freudiano) notando che l’io è l’idea del figlio, il tu quella del padre, il lui quella dell’Altro. Tutti e tre della stessa sostanza del verbo.
D’altra parte, niente sostanza senza idea. E’ certo per l’esistenza del pronome che è data la possibilità di separare ciascun individuo dall’altro. Dobbiamo dunque all’esistenza del pronome (e del discorso) questa possibilità – e questa è l’importanza radicale del pronome -, ma né la sostanza né il pronome possiamo considerare originari.
Il discorso, rispetto alla parola, duplica il mondo introducendo la rappresentazione, come uno specchio. Il mondo, nel discorso, si specchia nel significante che lo rappresenta; è dunque una realtà duale, quel dualismo che senza sosta denunciamo e che ci lascia intendere che ci sarebbero gli individui determinati di questo mondo, esistenti in una realtà nella quale si opporrebbero al significante, alla parola come se fosse un loro strumento.
Lacan ha utilizzato, nel Seminario sull’angoscia, il nastro di M?bius per indicare la natura dell’oggetto del desiderio, che in questo seminario si precisa come l’oggetto causa del desiderio, a-speculare e non orientabile, un oggetto che si sottrae a questo mondo della rappresentazione e la cui caratteristica è tale da consentirgli di abitare nel cuore del nostro stesso essere; egli lo situa infatti nell’Io e dimostra come la distinzione-opposizione fra soggetto e oggetto sia pienamente sovvertita dalla presenza del desiderio nel fantasma. Siccome è impossibile uscire dal fantasma, possiamo costatare che ogni volta che definiamo una relazione con l’oggetto siamo nel fantasma, ogni volta che pronunciamo un enunciato siamo nel fantasma e l’oggetto di questo fantasma potrebbe apparire distinto dal fantasma stesso, ma in realtà ne costituisce l’essenza. Potremmo dirla in questo modo: quando un’enunciazione, una domanda si costituisce come frase e diventa un enunciato (questa è la credenza) noi affioriamo in una realtà duale, l’oggetto perde la sua natura di nastro di moebius per diventare rappresentabile, proprio come un oggetto allo specchio. Qui l’oggetto è ritenuto padroneggiabile dalla logica, ma l’oggetto della logica non è più l’oggetto del fantasma. Abbiamo in questo caso un significante e l’oggetto designato da questo significante, il mondo delle parole e quello delle cose specularmene sussistenti. Ma nell’enunciazione l’oggetto non è mai rappresentabile e non è così facilmente separabile dalla domanda, l’oggetto è il nostro nastro di Moebius extimo avrebbe detto Lacan, non si può dire che sia dentro o fuori, dal momento che è illocalizzabile o al di qua della differenza stessa fra soggetto e oggetto.
Questi sono anche gli attributi di ciò che denominiamo sembiante. La proprietà del sembiante è proprio quella di avviare con la sua provocazione la distinzione fra esterno ed esterno ed è qui l’origine del desiderio.
Ciascun incontro è caratterizzato da uno stile. Occorre dunque l’Altro per un incontro, essendo lo stile una peculiarità dell’Altro. Il sapere e il discorso non bastano, anzi sono di ostacolo all’incontro. Anche il sapere più corretto (ma il sapere più corretto è soltanto quello che si effettua nell’incontro e non è dato prima) non può evitare la duplicazione del mondo fra le parole e le cose. Questa duplicazione non è originaria, come dicevamo, e pertanto nell’incontro essa si svela come menzogna, la menzogna del sapere. Solitamente, se non siamo nella tensione dell’incontro, noi viviamo nella menzogna e qualsiasi proposizione o enunciato su noi stessi o sul mondo circostante, dovremmo essere consapevoli che è menzognero quando siamo isolati. Lo stile è l’Altro, è l’uomo aveva detto Buffon, e Lacan riprendendolo: è l’uomo a cui mi rivolgo. E’ lo stile dell’ultimo che sopravviene sulla scena, di un nuovo arrivato che si staglia sulla porta, che abbatte il sapere che lo ha preceduto. Nello stile e nella forma, che presuppongono una parola libera ed estrema, insiste la traccia fuggevole della verità che poi il sapere dissolve.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *