Perché non sempre accade il miracolo?


Seminario del 12.6.2008

Siamo tutti in fondo all’inferno

dove ogni attimo è un miracolo

(Emil Cioran)

A che serve il miracolo? A quale legge obbedisce, quale fiducia accreditargli? Questioni che attendono da tempo uno snodo. Con tali domande prosegue il nostro cammino. Almeno questo ci è ancora concesso.

Ecco Montale: “il falco alto levato”. E’ stato osservato che questo falco è allegoria della divinità, insondabile e così distante nel suo cielo. Eppure il miracolo del falco è anche quello di una creatura con la vista oltre misura potente, capace di lanciarsi al suolo con grande precisione su una preda quasi invisibile. Il falco volteggia lontano nella fredda cupola del suo cielo. Il falco è animale buono o malvagio? La sua potenza suscita la nostra ammirazione, come la sua solitudine e la sua lontananza che quasi parrebbero fortificare la sua autonomia. La nostra solitudine, alla quale a stento ci rassegniamo, non è anch’essa una provvista dei miracoli che ci possiamo aspettare?

A che serve il miracolo? Perché incontriamo la controfigura dell’oggetto? Intanto, il miracolo attiva il nostro pensiero. Il miracolo è all’occorrenza, pur essendo interamente suscitato nel fantasma. Fantasma pragmatico? Parrebbe che incontriamo la controfigura dell’oggetto per una questione di strategia; per misurare direttamente la nostra distanza dall’oggetto, per sentire il polso della condizione del nostro rapporto con l’oggetto autentico (che peraltro sappiamo incoglibile). La controfigura compare per darci qualche ragguaglio, per manifestare la nostra condizione nei confronti dell’oggetto. Se siamo nell’intervallo incontriamo la controfigura dell’oggetto. Il miracolo. Ma la definizione del miracolo non è proprio questa: una controfigura dell’oggetto?

Non possiamo e non dobbiamo, tuttavia, impostare nessun calcolo sulla base di questo incontro. L’accadere dell’evento miracoloso, la comparsa della controfigura, procura semplicemente l’angoscia che può darsi come evento al contempo positivo e negativo. L’angoscia per il dissolversi delle categorie di spazio e tempo insieme al fantasma depressivo. Il miracolo incombe sull’orlo del fantasma materno come una sorta di avvertimento, ci sorge alle spalle come un astro sconosciuto per sospendere la nostra credenza, per insinuarvi un crepaccio, per dissolvere la rappresentazione fissata di noi stessi e del mondo. Pensavamo di conoscere la parabola dell’oggetto, eravamo già calati nel rimpianto o nell’illusione, calcolavamo la sua lontananza, la sua prossimità, valutando la nostra posizione, le probabilità favorevoli o la nostra impotenza nei suoi confronti, ci eravamo già dati per spacciati oppure non ci rassegnavamo.

Di fatto, il miracolo può riaggiustare la nostra posizione nei confronti dell’oggetto. Sarebbe questa la sua funzione? Se la controfigura ci appare distante, se appare stizzita contro di noi, allora possiamo verificare che anche l’oggetto del nostro desiderio lo è sicuramente. Viceversa, se appare amabile e disponibile altrettanto potrà dirsi dell’oggetto. Insomma, la controfigura si presenta sempre come una cartina tornasole della nostra posizione fantasmatica nei confronti dell’oggetto. Il miracolo è semplicemente la sua comparsa, poiché per quanto riguarda la sua posizione che rivela il nostro fantasma, essa non è affatto consolatoria. Ci indica semmai, sottolinea e conferma o corregge la nostra posizione fantasmatica nei confronti dell’oggetto. E’ dunque il fantasma stesso a suscitare, oltre alla sua disposizione più o meno favorevole, anche l’evento della sua comparsa? Parrebbe indubitabile, dal momento che appare proprio la controfigura dell’oggetto da noi fantasticato.

Esaminando l’evento a partire dal suo effetto, e chiamando angoscia indifferentemente questo effetto, sia che lo viviamo con esultanza o con timore, possiamo constatare che l’effetto è centrato precisamente sulla produzione d’angoscia. In qualche modo ci separiamo dall’oggetto, con l’effetto dell’angoscia, poiché riconosciamo la nostra posizione fantasmatica nei suoi confronti. In effetti, la controfigura che appare non ha alcun motivo di essere contrariata nei nostri confronti ovvero di presentarsi disponibile. Incontro con il reale, l’angoscia. Pertanto siamo indotti ad attribuire la ragione del suo atteggiamento, non all’oggetto in quanto tale, ma a qualcosa che ci trascende e supera e ci avvolge, condizione nella quale appunto versiamo quando siamo impregnati nel fantasma. La controfigura dell’oggetto, decisamente ci costringe ad abbandonare le nostre fantasie nei confronti dell’oggetto. Ma il punto davvero cruciale parrebbe essere un altro, e cioè che questo distacco nei confronti dell’oggetto è necessario per l’emergere della sessualità nei suoi confronti.

Riassumendo, noi nell’incontro con la controfigura dell’oggetto, incontro suscitato dal nostro fantasma fondamentale, verifichiamo in qualche modo la nostra posizione nei confronti dell’oggetto, ma l’evento non è dell’ordine del calcolo o della misura (e del calcolo o della misura non possiamo servirci per nulla, come invece è tentato di fare chi si trova in un discorso psicotico), inutile fondare su questo evento una strategia di appropriazione nei confronti dell’oggetto, bensì l’evento è in qualche modo telecomandato dall’incontro che ha come effetto la sessualità. Nel registro della sessualità il tempo sembra proprio scorrere nel verso contrario.

Non sempre sussistono le condizioni per l’accadere del miracolo. Talvolta l’esercizio della voce non conduce all’evento miracoloso. O comunque, fortemente compromesso è il potere della voce che altre volte si era dimostrato potente. Mi sembra di poter asserire che la posizione di figlio sia indispensabile, come funzione di Uno, per qualificare l’attesa dell’evento. Mentre, quando la funzione di figlio è coinvolta nel discorso sintattico, si chiude l’intervallo indispensabile per l’accadere del miracolo. Nella sintassi, impossibile l’incontro, perché l’Uno, nella sintassi, non trova, non incontra. Il trovare è dunque limitato all’uso della funzione di Uno? Parrebbe di sì. La funzione di Uno del figlio trova, ma occorre la pragmatica.

Occorre indicare, dunque, che la voce non funziona sempre. Il figlio non può avvalersi sempre e comunque della voce e dell’intervallo per l’incontro. La preghiera non sempre funziona. Occorre non essere assorbito dalla sintassi, occorre che la sintassi non prenda il sopravvento sulla frase. In effetti, è la ragione della delusione come esperienza persistente nel discorso isterico. L’oggetto non è mai quello cercato.

E’ utile esaminare l’intervenire dell’oggetto, dell’evento miracoloso, secondo i vari discorsi. Isterico, ossessivo, pragmatico.

Se siamo pregni del fantasma materno, muteranno le condizioni della comparsa dell’evento miracoloso. Saremo allora ottenebrati, all’inseguimento esacerbato di una mera controfigura dell’oggetto, o dell’evento, vagheggiato. Per esempio, non riusciremo a intravedere, se non per sprazzi di breve durata, per rapide apparizioni, entro un lasso di tempo molto corto (che corrisponde, nondimeno, a un crepaccio nel tempo) l’oggetto. In modo pressoché inavvertito, non riusciremo che a scontrarci con l’altra opportunità impensata, l’oggetto o la controfigura del miracolo autentico che non sempre riconosciamo (dipende dal nostro grado di asservimento o di assorbimento nel fantasma materno). Evento che magari si presenta come astro nascente sul bordo estremo della nostra percezione fantasmatica (e per questa sua dislocazione rispetto al fantasma e nostro mondo attuale, potrà non essere riconosciuto come miracolo) nella quale ripeto, siamo pienamente immersi, al punto che essa per noi rappresenta, totalmente, la realtà del mondo nel quale ci muoviamo. L’evento o l’oggetto miracoloso, non si presentano sempre nelle stesse spoglie. Questo oggetto controfigura rappresenta l’ago della bussola che potrebbe indirizzarci sulla rotta corretta del nostro desiderio. Che, dunque, ci suggerisce, a noi stessi, quale sia il nostro reale desiderio e come dissolvere il fantasma, accogliendo il divenire e il nuovo orientamento. Il nuovo oggetto. E’ ciò che abbiamo chiamato isterizzazione del discorso.

Esistono dei luoghi (clinici) dove questa dislocazione (del miracolo) è più evidente (dove è possibile questa isterizzazione) e avviene che ci caliamo in questi mondi per guarire dal nostro fantasma; guarigione che ora per noi vuole dire soltanto un nuovo indirizzo a cui volgere la nostra attenzione.

Il miracolo è sempre accanto a noi. La vita, nella sua estensione temporale, può essere un miracolo continuo. Può essere abitata dal miracolo. Senza che ce ne accorgiamo, ma può esserlo, indubbiamente. Per quanto a noi sia dato soltanto sporadicamente di percepire l’infinito che la borda. Se il miracolo è l’effetto di una condizione del discorso, soltanto nella clinica potremo avvertirlo come tale, come miracolo più o meno sconvolgente. Altrimenti vivremo senza percepirne la presenza. Anche per l’angoscia vale più o meno la stessa considerazione: l’angoscia è sempre presente, caratterizza ogni atto di parola, benché talvolta non la percepiamo affatto.

Se consideriamo l’opera d’arte come evento miracoloso, possiamo allora stabilire le condizioni della comparsa dell’oggetto artistico. L’arte è la vita percepita come miracolo. Il miracolo, con l’arte, non rimanda più all’oggetto, non ne è più tanto il segno o l’avvertimento, la precognizione. L’arte è dunque il miracolo che non cela più un’intenzione, che non evoca più la sembianza dell’oggetto. L’arte è la sembianza.

Ma il miracolo è una caratteristica dell’oggetto, pur informando la vita. Il miracolo ci costringe a una nuova definizione della clinica. Poiché in essa il miracolo è percepito distintamente, ne dobbiamo inferire che la clinica è la condizione della nostra relazione con l’oggetto.

Consideriamo il racconto di un analizzante. Il quale si lamenta perché scarseggia la materia prima ed è all’asciutto da qualche tempo, purtroppo; e si sta riferendo, per chi vuole intendere, al suo incontro con qualche donna. Racconta che la sera precedente alla nostra conversazione si è recato, come d’abitudine, con qualche amico in birreria (ecco la nostra clinica, se vogliamo), dove pochi giorni prima aveva conosciuto una giovane con la quale si era intrattenuto in una conversazione oltremodo confidenziale e, a suo dire, assai promettente. L’intenzione segreta, anzi, l’intero suo mondo simbolico, era pertanto calamitato in quella direzione, ovvero di poter nuovamente incontrare quella giovane e vedere se ne sarebbe potuto trarre qualcosa. Affacciatosi a una fra le sale del locale, nondimeno, la prima delusione; perché si accorge che la giovane appena conosciuta è già totalmente immersa in una conversazione con qualcun altro e lo degna a malapena di un cenno di saluto. Dopo alcune considerazioni sull’universo femminile, in genere, decide di non desistere dal suo progetto (potremmo anche constatare che insiste nella direzione suggerita dal fantasma materno che si è costruito e da cui è totalmente impregnato) e per il resto della serata adotta un comportamento che potremmo con buona ragione definire ossessivo, spostandosi da una stanza all’altra del locale e, con l’aria più indifferente possibile, avvicinandosi alla giovane in questione, ovvero mantenendosi a una certa distanza, conversando con l’aria più naturale del mondo con chiunque incontra. Questo racconto potrebbe valere esemplarmente per descrivere una serata qualsiasi di un qualsiasi giovane di una qualsiasi città del mondo, e proprio per questo lo riportiamo qui con intento paradigmatico, per chiarire cosa intendiamo per miracolo e per chiarire il rapporto fra il fantasma e il miracolo.

Racconta, dunque, che tornato a casa con le pive nel sacco e rievocando con sé medesimo la serata appena trascorsa, si accorge di qualcosa che lì per lì aveva del tutto trascurato. Nel corso dei vari spostamenti per accostarsi strategicamente all’oggetto del suo desiderio (o a quello che credeva essere l’oggetto del suo desiderio) racconta di essersi imbattuto, meglio, quasi scontrato per ben tre volte con un’altra fanciulla, conosciuta tempo addietro e rispetto alla quale ormai da tempo aveva abbandonato ogni mira di conquista.

Aggiunge che è come se le due storie in atto s’intersecassero in un modo enigmatico, ciascuna inseguendo il tempo di un racconto che le era proprio e intersecando l’altra come in una crepa del tempo. E precisa che, mentre la prima storia, deludente, era quella relativa alla propria credenza fantasmatica e si svolgeva, sul filo della delusione, tracciando ormai una curva catastrofica (nonostante gli sforzi strategici per condurla a buon fine), la seconda, appena avvertita, anzi percepita nella sua piena evidenza soltanto in un tempo posteriore, sembrava piuttosto animata da un’intenzione sconosciuta, come se una forza magnetica cercasse di distoglierlo dal suo progetto fantasmatico e dal suo obiettivo per orientarlo nella giusta direzione. L’ago della bussola del mio desiderio, esclama, forse voleva costringermi a intravedere una nuova possibilità, anche se tutto il mio fantasma sembrava opporsi e insistere caparbiamente nell’altra direzione.

Infine. Forse il miracolo si affaccia come opportunità soltanto per i poveri di spirito? Soltanto i disperati, o coloro che sopravvivono con i loro sogni magari un poco superstiziosi, hanno l’opportunità di scontrarsi con il miracolo? Non sono forse gli ammalati, gli ultimi, i derelitti, i disperati soltanto, coloro che si recano a Lourdes? Per gli altri, per i ricchi potremmo dire naturalmente con una certa ironia, la vita stessa è un miracolo. Costoro, anche se non se ne accorgono, forse sperimentano un miracolo continuo; per quanto non sembrino accontentarsene e finiscano con il rimpiangere il tempo in cui esso, il miracolo, si affacciava ancora come un astro potente e sconosciuto, improvvisamente alle spalle del loro fantasma.

Van Gogh, allora, un poveraccio? Con il miracolo che si affaccia sulla punta delle sue dita? Forse il miracolo è tanto più potente e sconvolgente quanto maggiore è l’universo della disperazione sul quale si affaccia.

Il racconto del nostro analizzante ci suggerisce un’ampia possibilità di teorizzare nuovamente il tempo, il fantasma, il miracolo, per approfondire ciascuno di questi che sono diventati concetti che diamo per scontati e che utilizziamo troppo frequentemente come moneta ormai fuori corso. Prima di tutto, il fantasma. Che il nostro fantasma affondi nell’inconscio, mille volte ce lo siamo detto. Che cosa questo significhi, resta però da comprendere. Il fantasma ci confronta con questo paradosso (che diviene immediatamente il paradosso fondamentale dell’esistenza): il fantasma è nello stesso tempo una finzione, una fantasia, rispetto alla quale sappiamo bene che l’oggetto si sottrae, incoglibile e sfuggente, ed è l’unico modo profondo e coinvolgente per descrivere il nostro rapporto con la realtà. Potremmo forse dire che il desiderio sta all’oggetto in quanto mancante come il fantasma sta al miracolo? Questo giustificherebbe quella naturale diffidenza che nutriamo ogni volta che siamo confrontati con il termine di “miracolo”. Più esattamente, il miracolo, si contrappone a un fantasma che ha raggiunto una sorta di apice assoluto.

E’ quantomeno curioso che l’oggetto quale preda inseguita dal fantasma, si ripresenti condizionato dal fantasma stesso, come miracolo. Intanto il miracolo sarebbe soltanto una controfigura dell’oggetto soltanto nel caso in cui ammettiamo che l’oggetto in quanto tale è incoglibile. Questa ultima asserzione è allora un dogma, e il dogma funzionerebbe dunque, avrebbe qualche potere di controllo sull’oggetto?

Potremmo ulteriormente interrogarci e distinguere: forse il miracolo dipende dal sintomo, come risvolto del fantasma, più che dal fantasma stesso?


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *